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L'ORA DEL PASTO. ERRI DE LUCA, LA LEGGE DELLA BICI E QUELL'INTERVISTA MAI REALIZZATA
di Marco Pastonesi | 09/09/2024 | 08:15

“C’è stato il freno della bicicletta che s’infilò nell’occhio destro e ci vollero i punti e poi restò più scarso”.

Non è una vita ma quasi – una seconda, una terza, una parte della vita, quest’ultima – che inseguo Erri De Luca. Attraverso i libri, le presentazioni, i festival. Attraverso le parole, le righe, le pagine. Attraverso i ricordi, i racconti, i romanzi. Attraverso il dono della memoria e della scrittura. Attraverso la ricerca del senso e della verità.

Scrittore, Erri De Luca, dopo gli studi e la politica, dopo i lavori, quelli a forza di braccia. E scalatore, montagne, a forza di braccia, di mani, di gambe, di piedi, e sempre di testa e di anima. “Ero su una parete in Dolomiti, mi è arrivato addosso il temporale. Ero da solo. I fulmini sbattevano contro la roccia, veniva giù una cascata di acqua e pietre. Stavo rannicchiato e fradicio, in attesa di pausa. Avevo tremiti per il corpo e pure in bocca, che attribuivo al freddo. Non ammetto di provare paura. La cima era poco più sopra, bombardata di colpi. Da lassù sarei sceso per un sentiero facile. Dovevo superare gli ultimi salti di roccia. Non riuscivo a muovermi”. Il resto a pagina 95 di “Il giro dell’oca” (Feltrinelli, 2018), da cui sono tratte anche quelle righe sulla bicicletta.

Montagne a piedi, non a pedali. Quando gli chiesi un’intervista per parlare di bici, mi rispose che lui, di bici, non avrebbe saputo che cosa dire, confessare o raccontare. E così niente intervista. Ma tra scalare a piedi o a pedali non c’è poi così tanta differenza, almeno questo lo penso io: la solitudine, la verticalità, la natura, la spiritualità. In più, il ciclismo, che è una forma anche di circo e teatro, che Erri De Luca segue con passione. Scrive lui, sempre in quel libro: “Quando non si distingue più l’acrobata dalla sua acrobazia, l’illusionista dal suo trucco, si raggiunge la perfezione dello spettacolo”. E: “L’opera d’arte perfetta si fa per i presenti sul momento, svanita con l’applauso”. E: “Perciò ammiro il circo, quanto il teatro”.

E poi i luoghi, le montagne, appunto, che gli scalatori a piedi o a pedali condividono. “Papà mi portò sul Vesuvio, era inverno, con la neve. Le scarpe si bagnarono, la luce pizzicava gli occhi. Indicò i nomi dell’orizzonte, il monte Faìto, Sorrento, Capri, Procida, Ischia, Miseno. Il golfo era spianato a pagina di geografia. L’altezza era panoramica perché da lassù tutto era lontano. Mi aveva preparato: non era un gioco né una passeggiata. Era montagna, una potenza seria”.

Non è facile la scrittura di Erri De Luca. O forse, invece, è facilissima. Si può aprire un suo libro anche a caso, isolare una frase, misurarne le parole, calibrarne il peso, immaginarne il colore. Le frasi brevi aiutano a comprendere quanto ogni sillaba sia studiata e sentita, decisiva e musicale. Precisa: “Sono felice quando una lettura mi entusiasma, mentre una mia scrittura al meglio riesce a soddisfarmi”.

Ma una bicicletta c’è, e c’è sempre, e c’è sempre in tutti. Anche in Erri De Luca. Anche se si traduce in un ricordo doloroso: quel freno “che s’infilò nell’occhio destro e ci vollero i punti e poi restò più scarso”.

PS C’è un libro, “ciclopedico”, che s’intitola “A piedi, in bicicletta”, gli autori sono Erri De Luca e Fabio Pierangeli (Drago Edizioni, 2012). Ma Erri De Luca scrive la parte a piedi e Fabio Pierangeli quella in bicicletta.

PPS Ci sono parole a pedali nel sito fondazionerrideluca.com. Come questa storia del 2 marzo 2021: “Come a molti bambini, mi è stata insegnata la bicicletta e il nuoto. Sono due avviamenti all’indipendenza, insegnano a muoversi da soli. Si apprendono senza maestri, con l’aiuto di un adulto che si dedica. Per la bicicletta si usavano le rotelle di supporto per mantenere l’assetto e impedire cadute. La persona che m’insegnò scelse di non usarle, dovevo imparare cadendo e superando il timore di cadere. Mi reggeva il sellino in partenza e mi lasciava andare. Cadevo, non ho imparato e non imparo alla svelta. Volevo rinunciare, non me lo permise. Era vergogna arrendersi, vergogna la paura di cadere. Ho imparato, perché la mortificazione del ritiro era più forte del dolore delle ferite. Un bambino doveva imparare a pedalare. La bicicletta non era un giocattolo, era l’apprendimento a fare da solo. Era il primo lasciapassare per allontanarsi. Quel poco di aria in faccia era l’anticipo di ogni successiva libertà. Difficile e rischiosa, bisognava guadagnarla e comportava un po’ di vuoto intorno…”. E ancora: “Non so se provai allora gratitudine per chi mi ha insegnato la bicicletta, il nuoto. So che non ho ricambiato, non ho trasmesso a un bambino quegli addestramenti. Sono rimasto allievo”.

PPPS Lo spazio per un’intervista sulla bicicletta c’era. Forse il tempo no. Amen. Non mi arrendo.

 

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