Viviani, missione compiuta

di Pier Augusto Stagi

È la forza di Elia Viviani: guardare sempre avanti. Sempre oltre. Non accontentarsi mai, cercando di migliorare, di crescere, di superarsi. È la sua forza, da sempre. Quel­la che l’ha portato a diventare un campione, di quelli con la «C» maiuscola, lui che forse il fisico da super uomo non l’ha mai avuto. Ma con la passione, la meticolosità del lavoro, l’impegno e l’abnegazione ha raggiunto livelli inimmaginabili.
Anche adesso che non tutto è compiuto, ma la forza è anche sostanza e il bottino co­mincia ad essere davvero pingue, Elia guarda avanti. Alle prossime sfide, anzi alla prossima sfida, che si chiama San­remo. Perché quella cosa lì, quella corsa lì, ce l’ha nel cuore, e sente che un giorno sarà sua.
Adesso, che a Roma è salito sul podio del Giro, per ritirare la maglia ciclamino della classifica a punti, dall’alto delle sue quattro vittorie di tap­pa, dai Fori Imperiali, dove tanti combattenti hanno sfilato acclamati dal popolo di Roma dopo una conquista, Elia guarda a nuovi traguardi.
«Sono felice e soprattutto in pace con me stesso. Volevo ritornare al Giro alla grande e penso proprio di esserci riuscito. I quattro successi significano che ho raggiunto un livello altissimo. Che Elia c’è e ha fatto un ulteriore salto in avanti, verso una maturazione psico-fisica non ancora conclusa. Mi sento be­ne, provo belle sensazioni».
Sulle strade di Roma ci sono tutti gli affetti più grandi: la sua famiglia, la fidanzata Elena Cecchini e il piccolo Attila, il bulldog francese che Elia e Elena adorano.
Al via da Gerusalemme il ventinovenne veronese della Quick-Step Floors poteva mo­strare nel palmares un solo successo di tappa nella corsa rosa (Ge­nova 2015, ndr) e nel 2016 in maglia Sky era uscito di scena ad Arezzo dopo essere finito fuori tempo massimo: «Una cosa questa che non mi è mai andata giù, mi feriva». Ora il poker calato al Giro d’Italia lo pone in un’altra dimensione: è la conferma che Elia ha un’altra caratura nel gruppo. Un altro peso. La chiave di questa crescita è nella sua determinazione, nel suo essere atleta e professionista, ma anche in una formazione, quella del team manager Patrick Lefevere, che ha creduto senza tentennamenti in questo ra­gaz­zo serio e scrupoloso, che non va mai spronato - non ce n’è bisogno - tut­t’al più accompagnato. Aiutato nella cre­scita.
«Nel 2017 Kittel con la nostra squadra ha vinto 14 volte, Elia 9. Magari il rapporto può invertirsi (il tedesco è passato alla Katusha, ndr )» disse in sede di presentazione Lefe­vere.
Viviani ha goduto a pieni polmoni e ci ha fatto godere. Solo sul traguardo di Imola si è sentito vuoto e solo. Non certo abbandonato dal team, ma dai soliti soloni che sono pronti a sotterrare tutto e chiunque, anche prima del dovuto.
«Sto andando forte da gennaio, e dopo Imola ci avevo pensato. Un calo poteva essere fisiologico, ma qui la squadra è tutta per me e mi sentivo in dovere di ripagarla. Di quel giorno si è già parlato fin troppo: c’ero rimasto male, per alcune parole che i tifosi mi avevano ur­lato lungo il percorso. Per qualche commento giornalistico un po’ troppo frettoloso. Per un titolo che non mi era andato giù, ma gli atleti sono atleti. Siamo gente competitiva, che vuole vincere, e soffre maledettamente quando le cose non vanno in un certo modo. Ma ho voltato pagina. A Nervesa della Battaglia mi sono preso la rivincita e le parole sono uscite come un torrente gonfio. Ho forse esagerato, ma come io mi devo sforzare di capire tifosi e stampa, chiedo lo stesso per il sottoscritto».
Il capolavoro, forse, lo fa sul traguardo di Iseo. Lo sprint in una frazione non propriamente adatta alle sue caratteristiche, dopo tanta montagna, in una tappa tutta mangia e bevi, con sedici giorni di fatica sulle gambe e anche nella testa.
«Quel giorno al via ero molto nervoso - ci ha raccontato a bocce ferme -. Non pensavo assolutamente di vincere, e temevo che Bennett potesse avvicinarsi alla mia maglia ciclamino. Difatti la Bora ci ha attaccato in salita e io mi sono staccato. Ho dovuto stringere i denti, ma siamo riusciti a rientrare. Poi la pioggia nel finale ha cambiato i miei piani, perché volevo stare alla sua ruo­ta per lo sprint. Ma in quelle condizioni la squadra poteva fare la differenza, come ha fatto. Fabio (Sabatini, ndr) è stato davvero fenomenale, come Stybar e tutti. A Nervesa della Bat­ta­glia Fabio aveva avuto problemi con la bici, a Eilat una foratura… Ma uno come lui è fondamentale nell’economia di una volata. Sa sempre cosa fare e co­me farlo, ti porta sempre nella posizione migliore: il suo mestiere lo fa alla grande. Alla Sky dovevo sempre fare due-tre volate prima dello sprint finale, qui con la Quick-Step devo solo pensare a tenere le ruote dei miei compagni, e a finalizzare il loro lavoro con una vittoria».
Un Giro da protagonista, che fa girare completamente la sua carriera. Dopo i Giochi di Rio de Janeiro del 2016, un altro balzo verso l’alto, verso l’olimpo dello sport.
«Forse la mia vita di atleta ha cominciato a cambiare dopo i successi di Am­burgo e Plouay. Poi è arrivata la Quick Step, un team che è costruito per aiutarmi in volata. La corsa dei sogni, però, resta la Sanremo. Quest’anno mi hanno lanciato la volata e purtroppo sono rimasto senza gam­be, lì, come un tronco da buttare via. Ma  so che in futuro le gambe per vincere quella cor­sa ce le avrò. Lo sento e lavorerò per questo».
Voto alto, per il suo Giro: «Mi dò no­ve. Se avessi vinto a Roma, sarebbbe stato da dieci. Sabatini mi ha tirato una volata perfetta, ma è stato bravo Ben­nett a prendermi la ruota e a saltarmi negli ultimi trenta metri. È stato un ot­timo avversario, complimenti».
Nel 2018 Elia ritornerà anche in pista, per cominciare a inseguire i Giochi di Tokyo del 2020.
«Ne ho parlato con il team, ne ho parlato con Marco Villa e Davide Cassani, la pista resta nel mio cuore: la amo. Mi spiace solo per la situazione di Monti­chia­ri, simbolo della rinascita della pista in Italia. Il nostro movimento ha bisogno di Montichiari. Non so se la copertura sia stata fatta male o quale sia il problema, so che né il Comune di Montichiari né la Federazione possono permettersi spese folli ma qualcuno do­vrà però intervenire per risolvere il problema».
Si dice che la squadra sia come una se­conda famiglia, ma in questo Giro Elia la sua famiglia l’ha avuta per davvero lun­go le strade del Giro. Papà Re­nato e mamma Elena l’hanno seguito con un camper con tanto di scritta EV da Praia a Mare fino ad Iseo e poi su e giù per le montagne del Piemonte arrivando fino a Roma.
«Sono fantastici. La mia famiglia è pazzesca: sono davvero persone speciali. Io sono ormai un nomade, uno zingaro del pedale. Sono via tanti giorni all’anno e quando chiamo, quando ho bisogno di loro, ci sono sempre».
«Il camper? L’ho comprato un anno fa - ha raccontato papà Renato, 55 anni, che gestisce un negozio di arredamento e uno di bici nel Veronese -, perché vo­levamo seguire Elia. Sono arrivato al Giro a Praia a Mare e da quel momento ho seguito tutte le tappe, macinando 3500 chilometri. Fino a Pescara c’è sta­ta anche mia moglie Elena. Poi ha fatto una pausa, e siamo andati tutti a Ro­ma, per la festa».
«I miei genitori sono la discrezione fatta persona. Sono due persone super-tranquille. Mi hanno sempre sostenuto, senza però caricarmi di responsabilità. Dopo Rio, quando li ho convinti a prendere l’aereo, adesso mi seguono molto di più e io sono felice di questo. Mi piace averli al mio fianco, perché contribuiscono alla mia tranquillità».

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