Qual è il personaggio più famoso nato a Messina dopo Antonello, l’immenso pittore del ’400 che fissò un prima e un dopo nell’arte della ritrattistica? Scusate, ma tra Filippo Juvarra e Adolfo Celi, Giuseppe La Farina e Gaetano Martino, Nino Frassica e Maria Grazia Cucinotta, secondo me Vincenzo Nibali sale tranquillamente sul podio. E non lo dico condizionato dal fresco trionfo dello Squalo alla Sanremo: con due Giri d’Italia, un Tour, una Vuelta e due Lombardia nel palmarès, Nibali era già tra i grandissimi del ciclismo italiano e adesso, con la vittoria nella Classicissima, lo vedo immediatamente dopo Coppi, Bartali, Binda, Girardengo e Gimondi, ma già davanti, ad esempio, a Moser e a Saronni. Significa essere, in assoluto, tra coloro che hanno fatto la storia dello sport italiano. Eppure, in tutto questo, sembra che la Sicilia non si accorga della grandezza di quest’atleta, o che non ne colga tutta la portata.
Difficile spiegarne il perché. Una ragione potrebbe essere il deserto ciclistico che si è venuto a creare nell’isola dopo la scomparsa della Settimana ciclistica, del Trofeo Pantalica e del Giro dell’Etna. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in Sicilia si correva per due settimane, dalla fine di febbraio ai primi di marzo. Molte squadre anticipavano le corse rifinendo la preparazione sulle strade siciliane, e così la permanenza si prolungava fino a superare talvolta i venti giorni. In una terra dove non esisteva una tradizione autoctona delle due ruote (Nibali è emigrato per poter correre ad alto livello), quelle presenze avvicinavano la gente al ciclismo, creando una passione e una conoscenza che ora sono andati perduti. Poi c’è il carattere dei siciliani, per i quali non esiste un successo regionale, ma cittadino. Un palermitano o un catanese resta freddino di fronte al successo ottenuto da un messinese o da un siracusano, l’elemento campanilistico e le rivalità prevalgono sull’identità collettiva di una regione dove fino a una quarantina di anni fa si impiegava una giornata per andare da Messina a Palermo (circa 220 chilometri)… Un’ulteriore complicazione arriva dal carattere dei messinesi. Qui il discorso si fa complesso. Nel 1908 la città venne rasa al suolo da un terremoto spaventoso che provocò circa 80.000 morti. Messina venne ricostruita, ma la sua anima andò probabilmente perduta per sempre. Un’effimera rinascita si verificò tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando la città sembrava dover diventare una piccola Miami del Mediterraneo (ne restano testimonianza gli stabilimenti balneari di Mortelle, che riecheggiavano quelli della Florida), ma l’illusione sfumò insieme al sogno - per qualcuno un incubo - del ponte sullo Stretto. Oggi Messina fa una fatica tremenda a ritrovare un’identità, perennemente in fondo alla classifica delle città in cui si vive meglio in Italia. L’indole e la mentalità di chi vi abita, inevitabilmente, ne hanno risentito, in un misto di rassegnazione e disincanto che tutto appiattisce. È difficile che il messinese si scaldi per davvero. Ogni tanto succede, come accadde quando il Messina calcio (ora precipitato in Serie D) tornò in Serie A dal 2004 al 2007: il primo anno, 24.000 abbonati allo stadio San Filippo! Mi auguro che succeda, finalmente, anche nell’approccio con Nibali: sarebbe veramente incredibile se i messinesi - e i siciliani in generale - non si accorgessero del tesoro che la loro terra gli ha dato in dono.
Nino Minoliti Ufficio Centrale de La Gazzetta dello Sport
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