Il Giro d’Italia che abbiamo appena consumato e il Tour de France oggetto di consumo nei prossimi giorni sono davvero come il festival cinematografico di Venezia e quello di Cannes. In attesa che la Vuelta o qualche altra prova a tappe entri in pieno nel ruolo del festival cinematografico di Berlino, per fare paura - di natura concorrenziale - ad una almeno delle due altre manifestazioni: di certo alla nostra.
Poco da dire e chissà se non anche poco da fare. Il festival di Cannes, che pure ha anagrafe meno antica di Venezia (questo però può essere un vantaggio), è decisissimamente il più importante del mondo, e l’unico concorrente che potrebbe fargli paura, il giovane Sundance Festival voluto da Robert Redford, si tiene negli Stati Uniti dove tutto sta all’ombra del grande zio Oscar. In effetti il premio Oscar data dal 1929, il festival di Venezia dal 1932, il festival di Cannes dal 1946, quello di Berlino dal 1951.
Per far sì che Venezia si avvicini a Cannes bisognerebbe, in primo luogo, stoppare ogni altro festival in Italia, e già che ci siamo anche nella Svizzera sorella di idioma (il festival di Locarno, Canton Ticino). Da noi il festival di Roma appena nato e subito si è messo a fare concorrenza a quello di Venezia, e persino a quello piccolo di Torino…
Il Tour e Cannes sono davvero tutta la Francia che si concentra e intanto si apre, si propone, si offre, si esalta. Ci sono ingredienti speciali, ovviamente, che si chiamano Costa Azzurra (pure Venezia in sé è richiamo enorme, ma il festiva al Lido non spartisce niente della Venezia dell’arte), esaltata dagli inglesi e poi (Scott Fitzgerald e annessi) dagli americani e ora dai russi e dai cinesi, e intanto patita anche da noi italiani, che spesso consideriamo la Liguria una scolorita regione di confine. D’altronde noi da Savona a Ventimiglia offriamo soltanto il festival canoro di Sanremo, mentre da Mentone a Saint Tropez i francesi offrono, oltre a Cannes, la vita culturale e godereccia di Nizza e pure di Antibes, la seduzioni anche a sfondo sessuale appunto della Saint Tropez eternamente targata Brigitte Bardot, le corride di Arles e Nimes, lo stagno magico della Camargue e l’entroterra della Provenza dei pittori (Van Gogh, Renoir, Matisse…, e soprattutto Picasso, tanto Picasso). Una pietra con minima valenza storica basta ai francesi per farci uno spettacolo notturno, chiamarlo “Son et lumière” e rifilarlo ai turisti, da noi borghi antichi e chiese d’arte sono trascurati.
Ma restiamo alla bicicletta. Il Giro, che in Italia non patisce in patria forti concorrenze ciclistiche, ha goduto periodi in cui il ciclismo italiano bastava eccome per riempirlo di premesse e promesse a livello mondiale (che però voleva dire quasi esclusivamente europeo, anzi italo-franco-belga, geograficamente un villaggio o poco più: ce ne stiamo accorgendo adesso), per gratificare grosse attese, per fare da passerella (il tappeto rosso) ai grandi, che erano spesso, appunto, gli italiani. Adesso la collocazione geografica assai anticipata nella stagione gli vieta di puntare forte sulla seduzione delle alte cime, per il grosso pericolo di neve. Ma intanto persiste la sua vicinanza di calendario al Tour, così che molti corridori importanti non mettono nel loro programma le due prove, e se possono scegliere vanno a pedalare in Francia. Il tutto mentre la Vuelta spagnola serve se non altro alla preparazione del Mondiale, e per questo è bene frequentata.
Ma c’è di più, al di là di queste cose in fondo risapute. Il Tour si è mondializzato come interventi pubblicitari e sponsor planetari, intanto che il Giro si è accontentato della provincia Italia, anche come respiro economico. Non c’entrano i corridori: i francesi da un trentennio ormai non hanno uno dei loro in maglia gialla a Parigi, eppure il Tour de France è sempre più grande e ambito, in Francia e fuori. Lo sa persino un italiano che si chiama Vincenzo Nibali e che fa le sue scelte.
Conoscere bene le ragioni di quella che è ormai una sudditanza, sulla falsariga di quella cinematografica di Venezia rispetto a Cannes, significherebbe probabilmente sapere molto se non tutto sul perché della complessiva diversa situazione attuale di due paesi che pure sono così legati uno all’altro, e per ragioni non solo geografiche. Ma ci vorrebbe da parte nostra tanta umiltà, fra l’altro assai difficile da frequentare proprio di fronte ai francesi campioni del mondo di supponenza.
Non c’è più un giornalista italiano di grido che segua il Giro (e fra poco forse finiranno i giornali), per non dire della mancanza di scrittori al seguito della corsa rosa. Siamo costretti a credere in un giovane sardo per non dover applaudire a priori il campione spagnolo ormai antico e sospettato pure di doping. Per paura del grande ciclismo mondiale, che si corre ormai per dodici mesi all’anno nei due emisferi, sotto tutti i soli, sotto tutti i cieli, coltiviamo l’orticello patetico dei poveri virgulti nostrani. Non sappiamo neanche sfruttare lo spirito ecologico del ciclismo, lo riteniamo anzi una palla al piede di fronte alla gloriosa motorizzazione.
Giriamo i nostri film in inglese e li mandiamo a Cannes, dove fra l’altro sanno ancora fare vincere i francesi. Siamo davvero tutti sbagliati, tutti da rifare se ancora possibile, ma ci fa comodo pensare che lo diceva, fra sorrisini più compiacenti che allarmati, Gino Bartali, un cronico desueto brontolone di tanti ma tanti anni fa.
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