Rapporti&Relazioni
Usa: doping d'élite e doping di massa

di Gian Paolo Ormezzano


Il ciclismo è arrivato quest’estate sui grandi giornali statunitensi, e chi era da quelle parti, come chi scrive queste righe, è stato dispiaciuto dell’epifania: perché l’occasione del Tour de France ha portato alla rievocazione della corsa gialla non vinta l’anno scorso dallo statunitense Landis, alla pubblicazione di estratti del libro in cui Landis si proclama innocente, e persino (su Usa Today, in fondo l’unico vero quotidiano nazionale, acquistabile in tutti gli Stati Uniti al mattino) il pretesto per una visitazione di tutti i massimi scandali dello sport: con il ciclismo che nel circo mostruoso fa la parte del leone (spelacchiato). Non un buon affare.
Alle prese con la traduzione dall’inglese di tesi e concetti mica facili, per via dello slang e delle sfumature, dopo la lettura, protrattasi per un certo lasso di tempo, ci siamo permessi nel miglior italiano a noi possibile alcuni quesiti, alcuni pensieri, tipo...

Quale altro sport sarebbe così tanto tartassato, in Italia come negli Usa, se presentasse gli stessi casi del ciclismo? Sicuramente non il calcio inteso come soccer all’europea o come football americano, sicuramente non il baseball, non il basket del potente professionismo di quelle parti. Anche in Nordamerica il ciclismo dà l’idea di essere un comodo punching ball per gli allenamenti di tanti allo sdegno, al “gliela faccio vedere io”. E bisogna dire che Armstrong ha “aiutato” assai, con la sua algida e intanto ambigua superiorità, capace anche di fargli giocare gran parte dell’eccezionale bonus della sua lotta vittoriosa contro il cancro. Resta il fatto che anche là il ciclismo viene massacrato, fa da parafulmine, da sfogatoio, da diversivo. Tutto il mondo, si dice, è paese, e più che mai nella fattispecie del doping e dello sport. Però tutto il mondo, e facciamo un giochettaccio di parole che in inglese è impossibile, è anche palese nell’accanirsi contro uno sport comodo, umile, espostissimo, e inoltre tutto il mondo è pavese nel senso che se si vuole fare una crociata contro il doping si fa ondeggiare lo standard al vento dell’indignazione per il ciclismo brutto e cattivo.

La vicenda del lottatore (wrestling) Chris Benoit che ha ucciso moglie e figlio e si è tolto la vita ha occupato alla grande, e per tanti giorni, giornali e telegiornali, ma non è servita a ridurre il volume di fuoco contro il ciclismo. Due mondi separati: a) il doping per incrementare a fini miratissimi la massa muscolare, e pazienza se criminalmente si spappola il cervello, appunto quello di Benoit; b) il doping in comode pastiglie per i modesti signori Smith che sognano il fisicone e non hanno troppo tempo da passare in palestra (non dunque il doping per spettacolarizzare i match di uno sport che tutti sanno finto, o per alterare un risultato sportivo di uno sport serio). Se vogliamo, il doping per diventare grandi dello show-business e quello invece per diventare grossi. Il doping della chimica sofisticata, dei delicati equilibrismi ematici, il doping degli ormoni in vendita quasi libera al drugstore.

Non esiste nell’opinione pubblica statunitense un minimo di decenza per ammettere che durante anni e anni gli atleti, specialmente olimpici ma non soltanto olimpici, di quel grande e potente paese hanno goduto, in sede di controlli anche ufficiali, di un trattamento di favore (basti pensare all’atletica Usa, che ha peccato alla grande negli anni Ottanta, quando l’opinione pubblica nordamericana ha giocato al gioco di massacrare Ben Johnson, canadese di Giamaica, e basta, e che è stata finalmente inquisita soltanto a partire dai Giochi di Sydney 2000).
Lo sport professionistico statunitense è preparato anche a grandi rivelazioni (per esempio la cocaina diffusa nel golf, o nel tennis), con conseguente pronta dicotomia: libertà anche chimica agli sport dello show-business, puritanissima indignazione per lo sport diciamo di massa. In fondo la California, stato guida della disinvolta Usa, pullula di congreghe per il sesso libero e sfrenato ma se una ignara donna europea va sulla celebre spiaggia di Santa Monica con un normale bikini viene invitata a rivestirsi. E se per una medicina appena un po’ sofisticata occorre la prescrizione del medico nelle farmacie di Los Angeles e San Diego, qualsiasi statunitense fa un salto al di là della frontiera col Messico e a Tijuana compra liberamente ormoni a quintalate.
Conclusioni? Nessuna. Faccia ognuno l’uso che vuole di queste nostre annotazioni, che non pretendono di possedere forza di dogma, anzi, e che magari risentono di un amore al ciclismo che dentro di noi resiste, sopravvive a tutto. Semplicemente ci permettiamo di suggerire che forse non è il caso di sentirci, noi italiani, noi ciclofili, grandissimi peccatori, e con l’esclusiva di un certo peccato.
hhhhhhhh

Lo abbiamo già scritto, forse, in ogni caso lo scriviamo ora. Ogni estate che passa è un’estate sciupata per la propaganda del ciclismo sulle spiagge, comunque nei posti di vacanza. Quando pensiamo che uno sport assurdo come il beach-volley, dove se si gioca a coppie, come nella “versione” originale, si dà vita a partite comiche, dove non esiste possibilità di difesa, ha trovato sulle spiagge diffusione e persino dignità olimpica, viene da piangere. Per fortuna c’è lo spinning acquatico, vien da dire, ed è triste. Per fortuna che ci sono i pedalò. Però un bel circuito con ciclisti veri e magari anche celebri offerti ai villeggianti sarebbe un colpaccio non solo per la località che lo offre, ma per l’immagine del ciclismo. Adesso c’è al massimo il triathlon: dove la bicicletta gode della minore spettacolarità, perché finita la nuotata la si inforca e si sparisce in fretta.
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