Mirko Ferronato: «Ursus è da sempre sinonimo di voglia di crescere, di innovazione e tecnologia»

di Pier Augusto Stagi

Il cuore è verde acido, ma da sempre è per Rossi, rigorosamente in maiuscolo. Per Mirko Ferronato il verde acido è chiaramente quello di Ursus, il suo luogo, il suo territorio, la sua tazza da the. È anche la sua passione e financo il suo passatempo: è un quotidiano piacere. Da uomo di numeri però, questi li vuo­le solo in nero, mai rossi. Per questi ha una vera e propria idiosincrasia, ma non per Pablito, l’amore sportivo di una vita, che ancora oggi, a dispetto dei suoi 52 anni, lo fa tornare o restare ragazzino se solo ci si trova a parlare di quel fantastico centravanti d’area stella di Vicenza, Perugia, Juventus e nazionale. Mirko Ferronato è il nostro “Ca­pitano Coraggioso” di questo mese, il numero uno di uno dei marchi più prestigiosi e conosciuti nel mondo bike e non solo. È l’amministratore delegato di un’azienda che tiene alto il “made in Italy” nel mondo e guarda al mondo con la convinzione di poter ancora recitare un ruolo da protagonista e non da comparsa.
Parliamo di attore protagonista e da un film si ha la genesi di un nome: Ursus.
«Dobbiamo tornare al 1966, anno in cui papà Sergio brevetta la sua versione di bloccaggio rapido per selle in acciaio - ci spiega Mirko Ferronato, CEO di Ur­sus -. Quello fu il primo colpo di pe­dale di una corsa che ancora oggi è in pieno svolgimento, che ci ha visto e ci vede protagonisti da anni. Dai bloccaggi rapidi per i reggisella all’utilizzo an­che sulle biciclette pieghevoli. Nel ’66 il primo brevetto, nel ’67 l’esigenza di dare un nome e un marchio alla fabbrica appena nata. In soccorso gli viene un film, un vero e proprio colossal, un successo planetario: “Quo Vadis”, con il suo gladiatore Ursus, capace di lottare a mani nude con un toro inferocito nel disperato tentativo di salvare la sua principessa, Lidia. E così prese tutto: il nome del gladiatore e il toro, ancora oggi simboli della nostra azienda che da anni è riferimento nel settore componentistica meccanica per bicicletta. Mozzi e freni, bloccaggi e reggi biciclette, da sempre sono nel nostro Dna. Poi negli Anni Ottanta scoppiò la MTB e anche in questo caso papà e la sua Ursus seppero farsi trovare pronti lanciando uno speciale sistema frenante dedicato alla nuova fuori-strada».
Questa la nascita di Ursus, ma ci parli un po’ di lei…
«Nasco a Bassano del Grappa il 23 agosto del 1971. Vivo a Rosà con Fe­­­­derica Bordignon, mia moglie, e i nostri due figli: Leonardo di 23 anni che studia ingegneria gestionale a Pa­dova e Beatrice, 20 anni, che fa economia e commercio alla Cattolica di Mi­lano. Che tipo di bimbo sono stato? Educato e pieno di vita, come la gran parte dei bambini. Il sogno? Giocare a pallone, cosa che per altro ho fatto per anni con una passione infinita. Mamma Laura (Zen, ndr) ha vissuto per 20 an­ni a Milano, prima di intercettare papà Sergio (classe 1945, ndr) che è ancora oggi in azienda».
Sarà un caso, ma l’azienda è a forma di U, come Ursus: dal 2019 c’è la sede nuo­va, quella operativa, quella degli uffici, dove sta lei. Papà, invece, è dove ha creato la sua di creatura: nel lato produttivo.
«L’azienda nasce come detto nel ’67 qui a Rosà, a 500 metri da do­ve siamo oggi. La creò con suo fratello, lo zio Domenico, anch’egli figura fondamentale di questa fantastica av­ventura. Pa­pà, come giustamente dice lei, sta nel suo habitat, dove c’è il cuore pulsante dell’azienda, dove nascono i pezzi Ursus, dove lui si trova meglio. Qui gli uffici sono troppo nuovi, troppo eleganti, troppo silenziosi: papà deve sentire il rumore della produzione. Per lui è musica».
Quanta gente è impiegata attualmente?
«Qui alla Ursus siamo in 65, ma poi ci sono altre due piccole aziende che fan­no parte della nostra famiglia. A Loria abbiamo un capannone di 2.000 metri, dove effettuiamo lavorazione da estrusi: l’azienda si chiama Lamel (Lavora­zio­ni Meccaniche Loria) e lì sono im­piegate sei persone. E poi c’è la Of­mero (Officine meccaniche Rosà), do­ve sono impiegate dieci persone e fan­no lavorazione di ripresa. Ofmero lavora anche per altri mondi, come quello per le carrozzine di invalidi, mentre La­mel fa com­ponenti (sganci) per scarponi da sci».
Le scuole?
«Elementari e medie a Rosà. Le elementari al Pascoli, le medie al Roncalli, poi il liceo scientifico al Jacopo Da Pon­te di Bassano del Grappa. Dopo di che mi laureo in Economia e commercio a Trento».
Passione per la bicicletta?
«Se le dicessi di sì le direi una bugia. Oggi sono appassionato, oggi le pos­so dire che faccio il lavoro più bello del mondo e sono felice che pa­pà e mam­ma me lo abbiamo permesso, ma quando ero bimbetto e poi ra­gazzino ave­vo in mente solo lui: Paolo Rossi. Non tifavo una squadra, io ave­vo un autentico e sincero amore per Pao­lo Rossi. Co­me ben sapete lui era toscano di Prato, ma calcisticamente nasce al Vi­cenza e io tifo per il Vi­cenza. Poi Pao­lo passa al Perugia e io tifo Perugia. Poi passa alla Juventus e io comincio a tifare la Juventus. Oggi sono maledettamente juventino, un convintissimo bianconero, che ha però un solo simbolo e un mito assoluto: Paolo Rossi».
Non è un caso che lei giocasse come centravanti, con il numero 9 sulle spalle.
«Non ero fortissimo, ma ero velocissimo, tanto è vero che a 15 anni fui az­zurro di atletica leggera dei 100 metri e partecipai a Bruxelles ai campionati d’Europa. Ero un centravanti di rapina, velocissimo come pochi, che si ispirava al più grande di tutti: Paolo Rossi. Non solo un grande giocatore, ma un uomo delizioso, un ragazzo che andrebbe raccontato di più. Ricordo che andavo a vederlo con Luigi Canova, l’allora no­stro capo-officina allo stadio. Prima partita: Vicenza-Roma 1-1, con gol di Pablito, naturalmente. Nel 1978 ricevetti il regalo di Natale più bello della mia vita, quello che ancora oggi ricordo con emozione infinita: la ma­glia az­zurra di Paolo Rossi, quella che indossò ai mondiali di Argentina».
Erano gli anni anche delle figurine Pa­nini…
«Certo che sì: “go go, manca manca”. Ce l’ho ce l’ho, manca manca. Quante partite a muretto o a lettera, quanti scambi con le doppie: penso di avere ancora da qualche parte i miei album».
Quando conosce il mondo del lavoro?
«A 14 anni. Finite le scuole, per un mese e mezzo lavoravo in azienda e la cosa mi piaceva un sacco, mi rendeva orgoglioso ed è in quel periodo che ma­­turo l’idea di entrare in azienda. Molti papà sono costretti a convincere a forza i propri figlioli a seguire le loro orme, con me non ce n’è stato bisogno. Quello volevo fare e quello ho fatto. Vacanze? Con la mamma, due settimane a Jesolo, punto. Partivamo io e lei con la sua 126 rossa e ci facevamo quindici giorni di assoluto relax. Papà? A lavorare, come sempre».
Figlio unico?
«No, ho un fratello fantastico, Andrea, che è stato molto sfortunato ma è la nostra fortuna, la nostra gioia. Quando è nato ha avuto una grande asfissia neonatale. Per anni non possedeva equilibrio e non parlava. Oggi si fa ca­pire, con un linguaggio tutto suo: io per lui non sono Mirko, ma Mimmo. Lavora in una cooperativa e fa assemblaggi. Cammina, non guida, non legge, non scrive e ha ancora qualche problema di equilibrio, ma è un fantastico bimbo adulto. È la gioia dei miei genitori e mia: è simpatico come nessuno».
Quando viene assunto a tutti gli effetti in Ursus?
«Come le dicevo, era il mio sogno confessato, perché a papà e mamma l’ho sempre detto: una volta laureato vengo a lavorare in Ursus. Così ho fatto. Il 1° febbraio del 1997 sono assunto da pa­pà Sergio e zio Domenico. Dopo anni trascorsi da ragazzino in produzione alla pressa, entro con lo spirito commerciale. Erano anni particolari, quelli. Molte aziende già guardavano all’Asia e fondamentale era internazionalizzare l’azienda. Entro che Ursus nel 1997 fatturava 10 miliardi di lire; nel ’98 nove; nel ’99 otto. Insomma, mi trovo in una bellissima azienda che però non ha più futuro. Papà non parlava l’inglese e io mi chiedo: come posso aiutarlo? C’è solo un modo per farlo: andare a trovare clienti all’estero. Così prendo una Marea Fiat di color granata, la più brutta macchina di Rosà, e vado ad in­contrare un cliente che di nome fa Ky­nast, il più grande produttore di biciclette in Germania negli anni Ot­tanta. In cinque minuti mi dà la più grande lezione di vita che potessi ricevere. Mi chiede due prezzi e io do due risposte vaghe che mi mettono a nudo: non so nulla! Questo pezzo qui può farlo ros­so?, mi chiede. Vado a casa e glielo di­co domani. Questo qui può farlo in questo modo?, mi ridomanda. Vado a casa e glielo dico domani. Lui secco: la prossima volta non c’è bisogno che faccia mille chilometri per venirmi a dire ciò che non sa, può tranquillamente mandarmi via fax il listino prezzi. I mille chilometri di ritorno mi servirono per capire cosa dovevo fare da grande. Così, una volta tornato a Ro­sà, vado da papà e gli dico: ho un problema, devo capire i processi. Così per tre anni ho lavorato tra produzione e commerciale e questa cosa mi ha formato tantissimo. Dopo questo lungo e prezioso tirocinio ho iniziato ad andare all’estero con competenza e tante informazioni. Oggi l’80% del fatturato che facciamo viene dall’export».
E quanto è il vostro fatturato oggi?
«Nel 2023 siamo scesi del 23% (era di 33 milioni di euro, ndr), però abbiamo fatto 23 milioni di euro. Se pensa che nel 2019 ne fatturavamo 19 milioni, non è assolutamente male».
Come nasce l’idea di diversificare?
«Come sempre dall’esigenza nata dal bisogno. Diversificare ci ha permesso di sopravvivere e difendere l’occupazione. Dal ’98 al 2004 ci siamo aperti ad altri settori che andavano meglio del nostro. Ho cominciato a fare delle fiere della subfornitura in Germania e ho trovato nuovi clienti e nuove opportunità. Dai dadi autobloccanti per la Bmw a componenti meccanici per aziende di livello come Merloni, Elec­trolux e via elencando… Il punto di svolta è però il 2004».
Cosa succede nel 2004?
«Un bel giorno viene qui con un bloccaggio per una sella Gian Luca Cat­ta­neo che oggi lavora alla Deda Ele­menti e all’epoca lavorava alla Decathlon: ed è grazie a lui che entriamo a lavorare con questa grandissima realtà con la quale ancora oggi siamo impegnati. Non sarò mai grato abbastanza a Gian Luca».
A proposito: voi siete i re dei mozzi, ma i cerchi da chi li compravate?
«Per anni abbiamo lavorato con un’azienda e una famiglia fantastica: la Am­brosio di Sergio e Marzio Marzo­rati. Di Marzio ho un ricordo stupendo, non si meritava di lasciarci così giovane. Ogni volta che penso a lui, a loro, mi viene ancora il magone».
Oggi con chi lavora?
«I cerchi in alluminio da due fornitori italiani, quelli in carbonio arrivano dall’Asia».
Mi dica: papà com’è?
«Sereno, non si è mai esaltato nei mo­menti buoni e non si è mai depresso in quelli meno felici: vive bene. Io non sono così, sono molto più emotivo e sentimentale. Ancora oggi gli faccio fa­re i preventivi di costi: è un fenomeno. Lui ti mette in conto anche l’aria che respiri. Insuperabile. Fino a qualche mese fa faceva i conti in lire, adesso lo posso comunicare: li fa in euro».
Facciamo un passo indietro: cosa ricorda dei Mondiali dell’82, quelli di Paolo Rossi?
«Indelebili i tre gol contro il Brasile, i due contro la Polonia in semifinale e e il primo gol di Pablito nella finalissima».
Dove era la sera della finale di Madrid con la Germania?
«Ero con nonno Beniamino, al quale assomiglio tanto, e nonna Leda a Fiera di Primiero. Gioia immensa, gioia in­contenibile, con il mio Pablito ancora a segno. Una vittoria strepitosa, che è re­stata nel cuore di tantissimi miei coetanei e non solo».
Di cosa oggi va orgoglioso?
«Di tante cose, di come siamo percepiti sul mercato e di come i nostri dipendenti si interfacciano con noi: io non sono il capo, per loro sono un “primus inter pares”. E poi, nonostante non ci sia richiesto ma lavoriamo sempre per guardare avanti ed essere al top, quest’an­no andremo a fare il primo re­port di sostenibilità (Esg, fattori am­bientali, sociali e di governance, ndr): lo porteremo a EuroBike. Pensi che nel 2019 abbiamo installato per la prima volta i nostri pannelli fotovoltaici, producendo 280 kilowatt; nel 2020 altri 100; quest’anno altri 200, per un totale di 580 kilowatt. Insomma, co­priamo il 50 % del nostro fabbisogno. Anche questa è sostenibilità».   
Ha una passione?
«Il lavoro».
Il colore preferito?
«Dovrei dire il verde che è il colore aziendale, ma il mio è il blu. A proposito di verde: nel 2000 quando scelsi il verde era l’unico colore di quelli primari non ancora utilizzati nel nostro settore. Io ho messo il verde acido, quello di papà era verde e marrone. Oggi nel mondo del ciclismo si parla di verde Ursus».
Il Film del cuore?
«Il gladiatore».
Attori?
«Julia Roberts e Tom Hanks».
Ascolta musica?
«Non sono un vero appassionato di musica, ascolto volentieri tutta la musica pop. Il gruppo preferito sono i Cold­play e tra i cantanti scelgo Mengoni che il prossimo anno andrò a vedere a San Siro».
Cosa la manda in bestia?
«La maleducazione e la presunzione».
Fiori?
«Rosa e tulipani».
Piatto preferito?
«Adoro mangiare di tutto, ma se c’è una pizza sono già felice».
Vino?
«Chardonnay e il Valpolicella, anche se sono uno che non beve tanto».
Un sogno?
«Si vive di sogni: con Federica siamo as­sieme da quando avevamo 15 anni. Con lei abbiamo realizzato un sacco di sogni. Poi c’è il sogno aziendale: vorrei farla crescere, ma non per diventare più ricco, ma perché serve a lei, all’azienda, per restare sul mercato. L’obietti­vo è programmare i prossimi cinque anni in maniera che Ursus possa ancora crescere. Io vorrei continuare ad essere attore, non spettatore».

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