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LA RIPARTENZA. REVERBERI: «UN CICLISMO TUTTO DA RIPENSARE»
di Giulia De Maio | 13/07/2020 | 08:10

In vista del rientro agonistico, abbiamo intervistato i team manager delle tre formazioni Professional italiane, parlando con loro di ripresa ma anche della situazione generale del ciclismo, della Riforma, dello stato dell'arte. Cominciamo con Bruno Reverberi della Bardiani Csf Faizané.

La Bardiani CSF Faizané è probabilmente la squadra che ha sofferto meno a livello economico la crisi causata dal coronavirus. Corridori e staff del greenteam hanno potuto usufruire della cassa integrazione e gli sponsor principali, essendo attivi anche in ambito medicale, non hanno fermato nemmeno per un giorno la loro produzione. Ora che l’attività è pronta a ri­partire, Bruno Reverberi ha le idee chiare sul futuro del suo gruppo e del ciclismo in generale. Se per il primo non può che essere ottimista, per il secondo è (a ragione) pessimista e scettico.

«Prima dello stop avevamo già disputato una quarantina di corse, raccogliendo dei buoni risultati. Nel dramma del­la situazione che abbiamo vissuto, a noi non è andata così male, nessuno dei nostri corridori ha avuto problemi e i nostri sponsor sono tra i pochi a non aver accusato perdite. Possiamo ritenerci fortunati. Aspettiamo la ripartenza, sperando sia effettiva. Il nostro obiettivo è portare a termine la stagione al meglio, ma a dirla tutta guardiamo già avanti. Almeno per i prossimi due anni abbiamo garantito il futuro dai contratti rinnovati con i nostri main sponsor, a cui dobbiamo regalare soddisfazioni importanti. Per tanti colleghi, invece, non sarà facile andare oltre al 2020: trovare finanziamenti con l’aria che tira sarà un’impresa. Il ciclismo così com’è non ha lunga vita, sinceramente la vedo dura, dura, dura» esordisce l’esperto tecnico reggiano, da sempre critico con chi dirige il mondo del ciclismo.

«In questa situazione di emergenza, il nostro movimento ha mostrato tutti i suoi limiti. Gli ultimi regolamenti emessi sono l’ennesima prova della di­sorganizzazione della quale siamo in balia. Ogni nazione ha preso provvedimenti diversi per contrastare la pandemia, che senso ha imporre un unico protocollo medico a livello internazionale? Questa sarebbe stata una questione da far gestire alle singole federazioni. Le direttive che ci sono state date, come l’imposizione di un tampone ogni tre giorni, so­no impossibili da ri­spettare. Non siamo co­me le squadre di calcio, i nostri atleti sono spesso di­stanti l’uno dall’altro. Visto che hanno sospeso i controlli antidoping a sorpresa a casa, quanto non è stato speso negli ultimi mesi andrebbe investito per avere più medici alle cor­se che possano fare i tamponi e i controlli che, invece, i dilettanti allo sbaraglio che ci guidano stanno facendo ricadere interamente sulle nostre spalle. Rispettare i vincoli imposti sarà un problema insormontabile per le squadre Under 23 e Juniores, visto che non sono previste distinzioni di categorie».

A David Lappartient e ai suoi collaboratori non le manda a dire.
«Che all’UCI fossero poco illuminati lo sapevamo già prima: hanno aumentato il numero di corridori per squadra di 4-5 elementi obbligandoci a svolgere tre attività contemporaneamente nonostante fossimo già in crisi, e continuano su questa linea an­che ora. Dovrebbero lasciare fare a ogni squadra quello che può con le proprie possibilità. Non stiamo parlando di posti di lavoro normali, obbligarci a mettere sotto contratto troppi corridori porta per forza di cose a un ab­bassamento della qualità: obiettivamente oggi in Italia di tre Professional non ne facciamo una davvero di buon livello. A maggior numero di atleti in­gaggiati corrisponde poi un aumento del personale e dei mezzi, i costi lievitano. Dal 2019 al 2020 siamo passati da 27 a 19 formazioni Professional e l’anno prossimo saranno ancora meno, so­no pronto a metterci la firma. Ma finché a chi ci guida interessa solo fare business...».

Difficile fare previsioni su cosa ci aspetta, anche per uno come Reverberi che è da una vita in ammiraglia.
«Ne ho viste di ogni in carriera, ma una pausa forzata come questa non era mai capitata. Le prime corse in programma sono già dure di loro, figurati quando non si è rodati da mesi di avvicinamento a grandi appuntamenti co­me quelli rimandati ad agosto. Anche se abbiamo a disposizione tanto ricambio, ci saranno parecchie sorprese, è inevitabile che sia così. Al di là della Mi­lano-Sanremo, sarebbe stato logico ridurre il chilometraggio di alcune gare perché, per quanto si possano essere tutti allenati al meglio, i corridori sono sempre stati costretti a stare fermi quattro mesi».

Il ciclismo post covid sarà ancora più duro, non solo per le Professional.
 «Non c’è sufficiente qualità per allestire 19 team World Tour e 20 Pro­fes­sional, i costi sono troppi elevati, il si­stema non è sostenibile, di sponsor reali ce ne sono davvero pochi. Israel, Bahrain, Astana, le due Lotto sono realtà sostenute dagli Stati di appartenenza. Continuano a “menarcela” con questa storia del ciclismo internazionale ma certe distanze restano incolmabili. Anche in America, dopo il boom di Armstrong, oggi sta sparendo tutto. Il cuore di questo sport resta in Europa e, basta guardarsi un po’ intorno, per capire come siamo messi male, come noi soffrono tanto anche gli spagnoli e i belgi. Il ciclismo non è un circuito tipo la Formula 1, che per altro si sta ridimensionando per non fallire. Non è possibile svolgere un’attività da 400 milioni l’anno, solo colossi come Mer­ce­des e Ferrari possono farsene carico, le altre case sono in ginocchio».

Lo “zio” Bruno è preoccupato soprattutto per i campioni di domani.
«Il problema maggiore lo vivrà l’attività giovanile. Noi della massima categoria con il Giro o il Tour ci salveremo, ma le squadrette dei ragazzini e gli or­ganizzatori di paese come faranno a ripartire? Non ci sono soldi, so-cie­tà, tempo. Il corridore non è una macchina, devi prenderlo a 10 anni e ti­rarlo su con pazienza e sacrificio fino a 23 per farlo diventare un professionista».

Lui di giovani se ne intende, ne ha lanciati un’infinità.
«Anche quest’anno ne abbiamo tra le nostre fila, li vogliamo far crescere con gradualità. Visto l’eccezionalità del periodo, per la prima volta, svolgeremo due stage in montagna di 15 giorni, dall’1 al 24 luglio saremo a Livigno, per mettere i corridori nelle condizioni migliori e non dar loro alibi in vista della ripresa. Vincere, soprattutto ora che ci aspettano tante corse una in fila all’altra con i mi­gliori al via, non sarà semplice. Al di là dei risultati, vogliamo farci vedere e mostrare quanta voglia abbiamo di correre, per ripagare la fiducia degli sponsor. I ragazzi sanno che questa è la priorità. Per il 2021 abbiamo una decina di corridori già sotto contratto, gli altri devono dimostrare di me­ritarsi il professionismo, altrimenti ne cercheremo per altri lidi».
Sempre che questo ciclismo malandato, continui a sfornarne.

da tuttoBICI di luglio

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