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GIULIO CICCONE. «I MIEI MILLE COLORI»
di Giulia De Maio | 25/06/2019 | 07:46

Mezzo assiderato, inferocito, felice, stordito. Giu­­lio Ciccone taglia il traguardo urlando, strap­pandosi anche quel poco che ha addosso, gli occhiali, e battendosi il petto, quel cuore che andava troppo veloce ma non gli ha impedito di domare il terribile Mortirolo e di disputare un Giro da assoluto protagonista. Primo in vet­ta, primo al traguardo.

La gioia è incontenibile, per un ragazzo cresciuto nel mito di questa salita. Il re della montagna del Giro 102 è riuscito a far sua la tappa regina: nonostante la bagarre tra i big della generale, il clima da lupi e una situazione tattica tutt’altro che ideale, con il compagno di fuga Jar Hirt che è stato sulla sua ruota ne­gli ultimi 15 chilometri di una tappa memorabile. Non stupisce che festeggi come un pazzo il suo secondo successo alla corsa rosa, a soli 24 anni.

Primo sul Mortirolo, primo al traguardo di Ponte di Legno, sul podio finale di Verona con quella bella maglia az­zurra che ha praticamente indossato dal primo all’ultimo giorno (solo a Pi­ne­rolo l’ha ceduta al compagno di squa­dra Brambilla) riceve i meritati applausi dei tifosi. Il super Giro dell’abruzzese della Trek Segafredo vale doppio, anzi triplo. Perché tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, si è dovuto sottoporre a due interventi di ablazione cardiaca per eliminare le tachicardie di cui soffriva.

«Ho avuto paura, ho temuto di essere costretto a chiudere con il ciclismo, questo Giro è stato la conferma che l’incubo è ormai alle spalle» raccontava a Ponte di Legno ancora frastornato dal freddo e dall’emozione. Qualche giorno più tardi, mentre sta “ricaricando la gamba” facendo il pieno di arrosticini, tira le somme con noi di tre settimane da sogno, che gli resteranno per sempre sulla pelle.

Torniamo a quella che hai definito una delle giornate più dure della tua vita, ma anche la più felice da corridore.
«Avevo già vinto al Giro, a Sestola, quando avevo solo 21 anni, ma questa volta è il Mortirolo, questa volta è per sempre. Erano due anni che inseguivo la vittoria alla corsa rosa, nonostante avessi una buona condizione per una ragione o per l’altra non ero riuscito a finalizzare i tanti attacchi in cui mi ero lanciato. Era la tappa che volevo vincere e ci sono riuscito. Visto come è an­data a finire, forse è stato meglio non fare il Gavia, sarebbe stato esagerato, la tappa è stata ugualmente spettacolare. Ho sofferto molto il freddo, so­prattutto l’ultima discesa senza mantellina è stata terribile, ma a posteriori ne è valsa veramente la pena».

Quando sul falsopiano Hirt ti ha det­to che non avrebbe più tirato, cosa ti è passato per la testa?
«Non gliele ho mandate a dire perché mi sembrava che il suo comportamento non fosse corretto. Temevo che anche questa volta la vittoria mi potesse sfuggire. La radiolina non funzionava bene, ma Adriano Baffi dall’ammiraglia mi ha rassicurato che avevamo un buon vantaggio quindi ho tirato dritto e pensato solo a giocarmela dando tutto me stesso. In realtà in quel finale concitato ho vissuto due momenti diversi di tensione: uno con Hirt e uno che ha ri­guardato solo me. Prima della discesa mi hanno passato una maglia con le maniche troppo strette, con i guanti bagnati non riuscivo a farla passare e così mi sono un po’ innervosito, ho preferito fare senza piuttosto che ri­schiare di farmi male tentando di indossarla. Poi fortunatamente in cima ho ricevuto un giornale, forse da uno spettatore, che ho preso al volo. Era pure gratis (ride, ndr)».

Ora scherzi, ma in quel momento non sembravi divertito.
«Dici bene, io sono uno istintivo. A volte è un pregio, altre un difetto. Se non mantieni la calma rischi di buttare all’aria tutto. Questa caratteristica è nel mio DNA, non posso cambiarla. Al traguardo ho provato un mix di emozione e rabbia, tanto che non ho capito più nulla. Ci ho messo qualche giorno a capire cosa avevo fatto, anche perché al Giro i ritmi sono folli. La sera siamo arrivati in hotel tardi, abbiamo cenato, festeggiato con un brindisi e il solito di­scorso alla squadra e la mattina dopo eravamo di nuovo “a tutta” tanto che in bici ho rischiato il colpo di sonno. Tra la stanchezza accumulata in corsa, le interviste e le po­che ore trascorse a letto, ero finito».

Dopo la sciabolata, cosa hai detto ai tuoi compagni?
«Ho ringraziato tutta la squadra per la fiducia che mi ha dato offrendomi un contratto nel World Tour e per avermi messo nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi che ci eravamo prefissati per il Giro: una vittoria di tappa e, in seconda battuta, la maglia azzurra. So­no cresciuto in un team più piccolo co­me la Bardiani Csf, a cui sarò sempre grato, e ora sto facendo un ulteriore salto di livello alla Trek Segafredo. In questo gruppo non ho avvertito alcuna pressione e mi sono sentito ben voluto fin da subito. Ho un ottimo rapporto con il team manager Luca Guercilena come con l’addetto stampa, con i direttori sportivi e con tutto lo staff. Anche con i compagni mi trovo a mio agio. Al Giro ho condiviso la camera con Gian­luca Brambilla, a cui ho prestato la maglia azzurra per un giorno. L’ho fat­to arrabbiare spesso perché sono un disordinato cronico mentre lui è molto preciso. Ogni giorno arrivava il fatidico momento in cui mi diceva: “Dai Cicco, sistemiamo”».

Quanto sei diverso dal Giulio che vinse una tappa al Giro nel 2016?
«Fisicamente tanto, mentalmente me­no. Mi è rimasta la voglia di correre all’attacco, quel pizzico di follia che mi contraddistingue, anche nella vita di tutti i giorni. Con gli anni sto maturando. Dall’inverno scorso sono seguito per la preparazione dallo spagnolo Jo­sù Larrazabal e ho cambiato molto il modo di allenarmi. Prima tendevo a esagerare, ora curo sia la quantità degli allenamenti che la qualità e arrivo più fresco alle gare. Grazie anche all’apporto dei professionisti del Centro Ri­cerche Mapei Sport curiamo tutti i dettagli in modo meticoloso, sia che si tratti della posizione in sella che della performance».

Che immagini ti restano del Giro 102?
«Porterò sempre nel cuore i primi giorni a Bologna, al quartier generale della Segafredo ci hanno davvero coccolati, tutte le volte che sono salito sul podio perché primo nella classifica dei GPM e, ovviamente, il giorno del Mortirolo.  Avrei voluto fare mia la tappa dell’A­qui­la, nella mia regione, a dieci anni dal terremoto. Ero a casa quando av­ven­ne, me lo ricordo. Le scosse hanno lasciato un segno in chiunque abbia vis­suto quell’esperienza, è un trauma sentirsi in pericolo a casa tua nel pieno della notte... Quando siamo passati dal­le mie zone però la gamba non girava. Non sempre le cose vanno come vorresti, ma qualche giorno dopo mi sono rifatto con gli interessi».

Se pensi all’azzurro cosa ti viene in men­te?
«Oltre a questa bellissima maglia, che avevo sfiorato un anno fa (si era dovuto inchinare al solo Chris Froome, ndr) e che sono orgoglioso di essermi portato a casa, penso alla divisa della nazionale. Questo colore potrebbe darmi l’ispirazione per un tatuaggio. Ne ho due: una bicicletta con il simbolo dell’infinito, che rappresenta il mio amore per questo sport, e una K con un cuo­re, che si porta dietro una storia lunga da raccontare. Dicono che averne di un numero pari porti sfortuna, è da due anni che un mio amico tatuatore mi dice che devo farmi il terzo ma non ho mai trovato il tempo. Im­pri­mer­mi sulla pelle un ricordo di questo Gi­ro potrebbe essere una buona idea, ci penserò».

Un altro colore che potrebbe starti bene è il rosa.
«In futuro mi piacerebbe correre il Gi­ro puntando alla generale, ma per farlo devo migliorare molto a cronometro. Prima di questo Giro non avevo mai pensato di curare la classifica, ma quest’anno mi sono reso conto di essere maturato in resistenza e di avere un buon recupero. Il mio tallone d’Achille è la cronometro, se non miglioro in quella specialità non vado da nessuna parte perché le prove contro il tempo sono fondamentali. Ogni anno supero un gradino e analizzando i dati con il mio preparatore è emerso che ci sono buoni margini di miglioramento. In­tan­to, dopo una settimana di relax mi ri­metterò al lavoro perché voglio far be­ne al Campionato Italiano e agli appuntamenti successivi. Non so se verrò convocato per il Tour de France, se ci fosse la possibilità sarei felice di andare ad aiutare la squadra. Non mi pesa fare il gregario perché anche così si vivono giornate indimenticabili».

Allora chiudiamo con una pennellata tricolore o gialla.
«Non so che colori mi riserverà il futuro, intanto mi godo l’azzurro del presente. Ho vissuto anni con alti e bassi vertiginosi, momenti belli e difficili. Ho esordito tra i prof con una ottima stagione, alla fine dell’anno ho deciso di operarmi per risolvere un problema che mi portavo dietro da qualche tem­po. La situazione si è complicata e in pratica ho buttato via un’annata intera. In quel periodo ho rischiato di perdere me stesso. Dopo un anno buio, in cui non riesci ad essere competitivo, vieni assalito da mille dubbi. Ma lavorando sodo mi sono ritrovato. Ne sono uscito a testa alta grazie a chi mi sta vicino e al mio carattere. Non ho mai mollato, ho sempre insistito, sono orgoglioso di quello che ho fatto».

da tuttoBICI di giugno

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