Rapporti&Relazioni
Incontri e confronti

di Gian Paolo Ormezzano

Il tema è difficile, delicato e sicuramente sprovvisto di in­teresse di natura morbosa. Ci scusiamo. Vogliamo parlare dell’Im­barazzo che pervade i campioni o anche i praticanti bravi di certi sport (bravi nel senso almeno che non possono rifugiarsi, rannicchiarsi in un fantozzismo anonimo, comodo, gioviale e in linea di massima simpatico) e i campioni di certi altri. Per esempio, tanto per rimanere dalle nostre parti, il contatto fra un ciclista campione o comunque professionista serio e stimato e un calciatore campione o comunque professionista molto ben pagato. E se non vogliamo usa­re il ciclismo e il calcio, diciamo del contatto fra un maratoneta e un giocatore di golf, un nuotatore di gran fondo e un asso del voltante, uno atleta dello sci nordico e un pattinatore di artistico. Per­sino un pallavolista bravino e un cestista da Nba.

Sono due a parer nostro le discriminanti che entrano in azione: la fatica e il de­na­ro. Per quanto dura sia una partita di calcio, non solo sempre il ciclista penserà che la sua fatica sia ben superiore, ma lo stesso calciatore penserà che pedalare per un duecento chilometri è assai più du­ro che farsi novanta minuti di calcio, con tanto gioco stagnante oppure vivo ma in zone lontane e con pause continue utili per ritrovare fiato e gambe. Quanto al de­naro, si pensi a cosa guadagna, con le sue passeggiatine per la curatissima verde campagna scortato dai caddies che portano le mazze pe­santucce, il celebre golfista rispetto a maratoneti fachireschi che si sgrumano 42 chilometri e rotti pe­stando asfalto con gambe dolenti.
I contatti non sono frequenti, ma esistono e spesso l’origine è qualcosa che ha poco o niente a che vedere con la pratica sportiva: una premiazione, un galà, una trasmissione televisiva, una iniziativa benefica… Quando non ad­dirittura un ricevimento al Qui­ri­nale. Accadono in genere due cose, distantissime una dall’altra: o si sprigiona subito una forte familiarità, magari se il meno celebre fa sapere, ruffianescamente o no, che il più celebre è il suo idolo, o è ge­lo totale, con i due che si annusano come animali sospettosi e in­quieti. Rarissimi gli scambi di esperienze validi, spontanei, intelligenti, utili. Magari tutti praticano il doping, magari lo stesso tipo di doping, ma di certe cose non si par­la, ci mancherebbe. E allora può accadere che lo sportivo celeberrimo, tanto per far sapere che qualcosa lui sa del mondo dell’altro, pone a quello decisamente me­no celebre (e meno ricco, c’è pa­rallelismo) domande assurde, stupide, banali. Ricevendo risposte in sintonia, cioè banali, stupide, assurde.

Le cose non sono sempre an­date così. Quando Fausto Coppi faceva visita ai calciatori del Grande Torino accadeva che Valentino Mazzola e C. gli chiedessero notizie delle sue corse, e lui raccontava senza sentirsi af­fatto divo e senza ritenersi obbligato a chiedere notizie calcistiche “in cambio”. Sono cambiati non tanto i valori in senso psicomorale, quanto i valori in senso materiale. Il grande campione di calcio è am­maestrato. comandato ormai da agenti, procuratori, pubblicitari, consulenti assortiti a gestirsi in una certa maniera, ed evita eccessi di familiarità con uno che è pur sempre creatura del suo mondo che è lo sport: potrebbe dargli fastidio o metterlo in crisi con comande difficili., potrebbe causare una reazione perlomeno bizzarra, potrebbe far risaltare, invidioso o ammirato non importa, l’immane e persinor irritante fortuna economica e non solo dell’asso celebre e stracelebrato.

Non arzigogoliamo sui perché e sui percome, non di­latiamo questi rapporti o non rapporti a cartina al tornasole del sociale, della celebrità come vie­ne considerata oggi. Soltanto segnaliamo che ad ogni nuovo contratto sportivo miliardario, ad ogni pompaggio ulteriore di celebrità il solco si allarga sempre più. Con il risvolto di situazioni particolari: per esempio se il celebre calciatore è ospitato nel box di un celebre pilota di Formula 1, il celebre calciatore accetta di stare in un angolo, cercando di non dare di­sturbo a meccanici eccetera, e li­mi­tando al massimo i momenti di contatto fisico con l’asso del vo­lante. Qui forse la discriminante è l’immanenza del rischio, il senso della morte che i piloti sfidano. Drammatizzazione eccessiva se­con­do noi, quando non anche fa­sulla: probabilmente si corrono più pericoli a guidare una vettura sino all’autodromo che a gareggiare sulla pista per due orette scarse, dentro abitacoli che sono cellule di alta protezione: ma se si pensa a questo il mito della velocità e del rischio ad essa collegato si smonta, ed è un brutto affare per tanti.

Per finire, ricordiamo due occasioni, speciali, di disagio: quella volta a Torino che Maertens, il belga campione del mondo di ciclismo, venne trattato con involontario ma avvertibile paternalismo da un suo “superiore” in celebrità, un calciatore a nome Platini, e quella volta a Mi­lano che l’ucraino Shevchenko, all’apice della sua carriera di go­leador, arrossì di timidezza di fronte a Moser che celebrava i vent’anni del suo il primato mondiale dell’ora.
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