Mi sbucavano da tutte le parti. In città, in campagna, al mare, in montagna. Signore con i capelli al vento, gonna Dolce&Gabbana, borsa Prada, non una goccia di sudore, venti all’ora sui cavalcavia, ma dalla parte della salita. E poi fuori, lungo le strade degli allenamenti, uomini della terza e della quarta età in scioltezza sulle salite del Giro, meno sudati di quando la sera si ritrovavano in albergo per tracannarsi il Negroni. Sostanzialmente, un accerchiamento. Io con la mia bici tradizionale, loro con la nuova arma di distrazione di massa: la bici elettrica, sublime evoluzione - deriva finale - di questo glorioso sport della fatica.
Fermo subito i rottweiler da tastiera, sicuramente già pronti con il commentino garbato: attenzione, zucconi del terzo millennio, non ce l’ho con cardiopatici e diabetici, con novantenni e mamme con le vene varicose, cioè con la clientela ideale del nuovo mezzo, da questo punto di vista grande intuizione, perché riporta - o mantiene - in bici un’utenza irrimediabilmente emarginata dalla bicicletta classica. Non è di loro che parlo, non sarebbe nemmeno il caso di specificarlo (se non fosse che ormai il web è frequentato da mentecatti di grandezza assoluta). Parlo chiaramente degli uomini e delle donne di sana e robusta costituzione, magari anche in età felicissima, che arrivano all’elettrico per moda, per noia, per comodità.
Questa brava gente non ha problemi di salute. Può benissimo pedalare contando sulle sole proprie forze. Il suo problema è diverso: avendo abolito tutte le scomodità e le fatiche dalla propria esistenza, proprio non concepisce l’idea di andarsele a cercare in bici. Se d’estate fa caldo (succede, mediamente), i comodosi non riescono a lasciare gli ambienti condizionati. Sono quelli delle caramelle senza zucchero, della Coca Cola senza caffeina, del dolcificante nel caffè di fine pranzo nuziale, della birra analcolica, del telecomando per alzare la tapparella. Quelli che vogliono tutto senza penare niente. Era inevitabile: prima o poi sarebbero arrivati anche alla bici, puntualmente ci sono arrivati.
Ho incontrato alcuni individui di questi che raccontavano fieri di aver scalato i quattro passi del Gruppo Sella e di sentirsi freschi come rose. Certe signore fanno invidia alle amiche dicendo di pedalare due ore al giorno, proprio tutti i giorni, casa-centro, centro-casa. Effettivamente è una popolazione che pedala, ma dal mio punto di vista non vorrei mai che fosse inglobata nella cerchia dei ciclisti praticanti. Per me come ciclisti sono più prossimi al golf e alla canasta, altro che storie. E non accetto mediazioni.
Mi dicono alcuni medici: è un bene che ci sia la bici elettrica, è il modo migliore per avviare tanti sedentari a un minimo di salutare movimento. Non lo nego. Però attenzione, caro dottore: sto notando che sempre più diffusamente avviene il processo inverso, cioè un numero sempre maggiore di individui sanissimi regredisce dal movimento sano della bicicletta ortodossa allo pseudomovimento dell’elettrico. Non lo dico per disfattismo, ma abbiamo tenuto conto anche di questo effetto imprevisto?
No, non sono per niente ottimista. Un mio caro amico gestore di un punto vendita mi confessa che il settore vive un autentico boom. Stiamo vendendo alla grande, me le chiedono tutti. Una volta almeno c’era il Ciao, per questo genere di umanità, un attrezzo però meno ipocrita, perché più moto che bici. Non so perché - lo intuisco - nessuno fa più il Ciao, dunque siamo nell’era del ciclismo elettrico. Vorrei ripeterlo: ciclismo elettrico. Santo cielo, ma soltanto io avverto questo suono stridente, questa irritante stecca, in due parole così lontane e alternative? Ciclismo è libertà, umanità, lotta, sudore. Elettrico è dipendenza, scienza, tarocco, facilità, scorciatoia. Unirli è contro natura. Nonostante tutti i sofismi che i furbetti della batteria si sono inventati per sembrare simili a noi, restano una razza molto diversa e lontana. Niente a che fare con loro. Niente da spartire. Mai. E continuerò a dirlo sempre, fino a quando resterò l’ultimo idiota capace di godere in un bagno di sudore, guardando verso l’alto, oltre il tornante, sperando che prima o poi l’agonia finisca e arrivi la discesa.
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