È un giorno di marzo mi è rovinata addosso la Milano-Sanremo. Rovinata addosso in tanti sensi, lineari o contorti. Rovinata addosso perché ho dovuto constatare che era in rovina, davvero, nel senso di interessi abbandonati, memorie trascurate, spazi ridotti sui giornali e alla televisione (e il passato per quanto glorioso considerato come un rudere). Rovinata addosso perché quasi quasi non mi ero accorto che era il suo giorno, e me ne sono un bel po’ vergognato, e la vergogna ha terremotato me e anche quello che la corsa ha significato per me in tanti anni di un giornalismo ciclistico che ogni tanto mi fa pensare che mi sto aggirando fra le sue (appunto) macerie. Rovinata addosso perché non ho potuto fare a meno di notare che sulla strada dei corridori c’era poca gente, e abbastanza indifferente allo spettacolo che pure esisteva. Rovinata addosso perché ho fatto troppo in fretta a lasciarmela dietro, come appunto mi accade con un panorama brutto, un quadro-crosta, un detrito.
Sapendola senza gusto ho evitato di rimasticarla in qualche modo e mi sono concesso subito l’appetito per le altre grandi corse della primavera, intanto che mi apprestavo a festeggiare un altro mio anno superato di pé-pé-hache (pi-pi-acca nell’alfabeto francese), lettere iniziali di passe pas l’hiver, non passa l’inverno, definizione usata ironicamente e crudelmente dai giovani transalpini nei riguardi di noi vecchi quando arranchiamo nei freddi della stagione e della vita. Festeggiando(mi) in francese ho pensato a come e quanto il mio giornalismo è stato influenzato da quella lingua, quei giornalisti, quelle gare, quel ciclismo. Cerco di spiegarlo qui, sperando che interessi a qualcuno.
Sono nato allo sport quando il francese era la lingua più parlata o comunque più usata nel mondo sportivo e magari non solo in quello, e ho seguito specialmente due sport molto in francese, il ciclismo e lo sci: il secondo ha ceduto all’anglofonia per primo, nel ciclismo pink jersey al posto di maglia rosa è recente, e ancora non si osa parlare troppo di yellow jersey. Andavo il più possibile a Parigi per intervistare i giornalisti favolosi de l’Equipe ed anche per vedere les filles nues al Concert Mayol, il teatrino-localaccio che ha cresciuto ai misteri femminili anche tanta stampa italiana della bicicletta, tanti réputés techniciens come ci autodefinivamo prendendoci persino un poco sul serio. Una volta al peccaminoso Concert Mayol - dove nell’intervallo les danseuses nues giravano col piattino per un obolo dicendo à votre bon coeur, merci - ho beccato tutta la Nazionale italiana di basket, gioco che allora si chiamava ancora pallacanestro, intanto che loro, gli azzurri, beccavano me.
Da allora, seconda metà degli anni cinquanta, mi sembra di essere sempre stato in love con la Francia: mia prima Olimpiade, quella invernale del 1960 a Squaw Valley, California, Usa, e uomo dei Giochi il discesista francese Jean Vuarnet, primi sci in metallo, e lui poi citì della Nazionale italiana di Thoeni e Gros. Stesso anno, mio primo Tour de France e vittoria di Gastone Nencini. Stesso favolosissimo 1960 con i Giochi di Roma, un solo oro per la Francia e all’ultima gara, quella di equitazione, e io triste. Mia prima tragedia vissuta da vicino la morte di Tom Simpson, ciclista inglese amico mio, sul Mont Ventoux nel Tour del 1967, per sole e alcol e doping. Lo sport francese vinceva poco nel mondo però conoscevo a Parigi, quattro anni prima che venisse a giocare a calcio in Italia, un certo Michel Platini, del quale rimanevo e (spero) rimango amico. In testa ma più ancora in cuore le canzoni francesi più di quelle italiane, la Piaf più di ogni altra creatura canterina al mondo.
E l’altra sera a Torino con Gianni Mura a parlare di sport al Circolo della Stampa, lui che non mi invidiava le mie persin troppe Olimpiadi e io che gli invidiavo i suoi mai troppi Tour de France. Perché se devo pensare, ancora adesso, con le tecnologie che ci danno tutto lo sport, anche dal didentro (Giovanni Mosca il grande umorista me lo aveva profetizzato a Bordeaux, una sera di Tour: “Presto lo striptease non ci basterà e ci faranno vedere le ballerine in pancreas”), con non solo la non necessità di andare sul posto a vedere lo sport, ma addirittura con la necessità di stare davanti al video per non perderci qualcosa di quello che tutti vedono, ancora adesso se devo pensare ad un terreno ideale per quello che chiamavamo reportage - andare, vedere, raccontare – penso al Tour de France. In un paese a cui Dio in fase di creazione ha dato mari fiumi monti splendidi, terra opima di cibi e vini sontuosi, canzoni mirabili, senso profondo dell’amore, della poesia, della cucina, della libertà, della ragione, dell’eguaglianza, e quando si è accorto di avere esagerato ha cercato di rimediare all’ingiustizia verso il resto del mondo. E allora - lo dico ai tanti miei amici transalpini - ci ha messo dentro i francesi, che sono bravi ma lo sanno e ce lo fanno troppo sapere e rompono. Anche e magari specialmente nel ciclismo, dove non vincono il Tour dal 1985 di Hinault, ma se ne fregano e lo amano e lo omaggiano sempre più.
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