Ero in Francia nei giorni immediatamente seguenti agli attentati di Bruxelles e mi ha colpito una dichiarazione televisiva del primo ministro francese Valls, sollecitato a pronunciarsi sulla eventualità di far disputare, in estate, le partite del campionato europeo di calcio a porte chiuse, viste le attenzioni criminali dell’Isis già palesate verso gli stadi: un sì fermo, reciso e preciso, incondizionato alla effettuazione diciamo regolare, normale, del programma calcistico e - aggiunta del premier transalpino - del Tour de France.
Non ho potuto esimermi dal pensare: con la stessa situazione in Italia, ci sarebbero state le stesse dichiarazioni del nostro premier, nel senso di coinvolgere anche il Giro d’Italia? Non ho neppure potuto esimermi dal darmi la risposta: no. E questo indipendentemente dal nome del premier e dalla sua connotazione politica. Molto probabilmente il premier (qualsiasi nostro premier) si sarebbe premurato di “salvare” nelle intenzioni e nelle decisioni il torneo calcistico continentale, e basta. Il perché non appartiene tanto alla penuria attuale di attenzioni mediatiche al ciclismo in Italia, quanto proprio alla differente cultura sportiva nostra e dei francesi (nessuna gerarchia, meglio questa o meglio quella, ma tanta diversità). E non si può neanche pensare che la Francia sia capace di valutare meglio dell’Italia la situazione mondiale del ciclismo, straordinariamente rigoglioso di praticanti e anche di gare in ormai in tutti i continenti e per ormai tutti i dodici mesi dell’anno, con enorme vis ecologica peraltro in costante crescita, con grande frequentazione femminile, con grande presenza dei suoi diritti in ogni serio piano urbano e stradale. No, questo lo sappiamo anche in Italia, tanto è vero che proponiamo la bicicletta utile, modesta e salutare per qualche premio Nobel e che addirittura, per il Nobel della letteratura, c’è chi propone Paolo Conte, poeta della canzone e autore specialissimamente di una strepitosa ode cantata su Gino Bartali (si chiama Antonio D’Orrico chi ha avuto questa idea, messa per iscritto su Sette, settimanale del Corrierone, ed è un grande).
Lo spazio fra Tour de France e Giro d’Italia è immenso, se lo si calcola considerando la forza culturale e non solo delle due manifestazioni. I francesi da trent’anni ormai non vedono uno dei loro in maglia gialla a Parigi eppure continuano ad affollare le strade offerte, vincolate alla corsa per ore e ore di blocco, di esclusiva anche in pieno tempo di esodi vacanzieri, a regalare la loro capitale per un giorno intero alla manifestazione nelle sue vie e piazze più celebri, a vedere nei loro giornali una competizione fra i giornalisti sportivi per “andare al Tour”, a registrare persino le richieste di giornalisti “altri” e di letterati che vogliono scrivere della grande boucle (il grande ricciolo, lo sapevate?, se vogliamo la grande boccola, pensando al disegno consueto del percorso).
Da noi il Giro schiva di norma le grandi città (che lo schivano…), e il fatto che quest’anno si concluda a Torino, anziché a Milano che ultimamente lo ha quasi snobbato, è quasi sensazionale. Le tappe vanno da centro turistico a centro turistico, le strade sono chiuse per poco tempo e quasi mai rigorosamente, gli automobilisti protestano sempre per i divieti e le attese, in città come in campagna come in montagna. E se almeno in certe tappe con certi arrivi nuovi o con sfide sulle montagne classiche c’è sempre molta gente, si tende a dire che si tratta di astanti, di passanti, di residenti, e che la corsa è venuta a far loro una sorta di visita per di più gratuita (quando si sa quanto costa in tempo, disagio anche fisico e denaro una giornata spesa su una salita per vedere un rapido passaggio di corridori).
Sul perché la Francia sì e l’Italia no potremmo scrivere volumi, ma in realtà non sappiamo scrivere poche righe esaurienti. Il sospetto che il tanto anzi troppo football, all’interno del comunque sempre poco sport, sia conseguenza - diretta o indiretta non importa - di una nostra povertà culturale che porta a prediligere modelli facili di azione, di successo, di frequentazione, di venerazione, insomma di vita, di conoscenza, di (ariecocci!) cultura è forte nonché fortemente tentatore, ma ci sembra davvero troppo comodo da frequentare. Dire che c’è meno Giro che Tour perché qui si legge di meno, si gode zozzo di più, si televede di peggio è così facile che dirlo ci fa paura quasi come pensarlo. Ravvisare nella decadenza del ciclismo in una certa Italia sa, fra l’altro, di snobismo, di presunzione, di élite: oltre che, nel nostro caso personale almeno, di déjà-dit, anzi di déjà-écrit. Fra l’altro ci sono francesi innamoratissimi anche intellettualmente dell’Italia, e ci piace troppo ricordare che Jean Cocteau disse che in fondo i suoi connazionali sono italiani di cattivo umore. E se il Tour de France sportivamente è più bello del Giro d’Italia (ma mica sempre: e si è talora troppo generosi o servizievoli nello scambiare uno sbuffo di azione pedalata al Tour per fase epica della corsa), l’Italia nonostante gli scempi di noi italiani continua ad essere più bella della Francia che pure bella è. E mica possiamo aspettare che cose orribili come quelle accadute a Parigi arrivino chez nous e stimolino un nostro premier a stupire e dunque smentire chi scrive queste righe, cioè nella fattispecie a mettere il ciclismo sul piano del calcio.
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