Rapporti&Relazioni
Io farei giustizia

di Gian Paolo Ormezzano

Ogni tanto viene doverosamente, umanamente nonché periodicamente vo­glia di porsi una domanda: cosa fa­rei se mi fosse concesso un atto (o an­che più di uno, ad esempio un paio o un terzetto di atti correlati) di potere assoluto? Un gio­co che magari non è soltanto un gioco.
Io per esempio sono quasi sicuro che sciuperei l’opportunità eventualissimamente offertami, non dan­dole il giusto peso, quasi fos­se uno scherzo, una seduzione fur­betta del caso per testarmi, e anziché chiedere la fine dell’ingiustizia nel mondo, e già che ci siamo anche quella della prepotenza e della fame, chiederei ma­gari la fine (sportiva, solo sportiva per carità) di una certa squadra di calcio, e di riflesso di tanto calcio. Penserei che in fondo il dio che mi ha fatto l’offerta del potere assoluto, sia pure transitorio, può soddisfarmi senza problemi, visto che mica chiedo troppo…

Se ci penso sopra, addirittura arrivo a decidere personalissimamente che, sempre per far le cose presto e be­nino, chiederei di tornare in­dietro a quando, da un’ogiva di un tempio indiano a Dehli, mi ritrassi allorché, là in basso, quel mendicante che aveva appena fatto ballare per me il suo povero orso ammaestrato alzò gli occhi a chiedermi una misera moneta (correva, correva troppo il 1962, per me giovane pieno più di scoperte che di riflessioni). Io non avevo spiccioli, e allora optai per ritrarmi e sparire alla sua vista, ma feci in tempo a cogliere lo sguardo, persino più malinconico che deluso, di quel poveretto, ed è come se lui continuasse a guardarmi, lo giuro.

Non escludo che, dotato di potere assoluto e avendo un po’ di tempo per pensare e intanto avvertendo che, se esagero nella richiesta chiedendo ad esempio di cambiare il mon­do, rischio di essere accusato di megalomania, nonché di presunzione di sapere chiaramente cosa è bene e cosa è male, e di perdere magari l’offerta, mi sistemo nei miei territori abituali di lavoro e chiedo che il ciclismo abbia finalmente giustizia.

Giustizia perché? Ma Dio Santo (direi proprio così, alla divinità in questione), il ciclismo soffre di decadenza, di vetrina (non tanto di pratica) perché autosputtanatosi con la faccenda del doping, quando ha eseguito su se stesso quelle operazioni etico-chirurgiche, con costi altissimi e dolorosissimi, che nessun altro sport si è auto inflitto. Perché diventato sfogatoio delle ipocrisie altrui e anche parafulmine della dose normale di sdegno tipica degli umani e da esso tutta assorbita. Perché ha su­bìto ma anche si è dato controlli persino feroci (a parte il ca­so Armstrong, dove però sono sta­ti testati prodotti che forse sa­rebbe bene dare a malati e vecchie e bambini perché crescano forti vincendo tanti Tour de Fran­ce di seguito). Perché i polpacci di un giocatore di calcio di adesso sono grossi come le cosce dei loro omologhi di una volta, e credere che sia tutta palestra è da idioti puri e vili. Perché noi del ciclismo ne abbiamo abbastanza di quella benevolenza farisaica che parte dal “poverini con quel che faticano” e finge di sdegnarsi per i guadagni sardanapaleschi di campioni di discipline tutto sommato poco impegnative quando non anche cretine.

Perché non me ne frega niente dei risvolti ecologici che pure raccomandano il ciclismo e lo preservano da una decadenza assoluta, quando poi in vetrina ci sta male, come un abito goffo esposto fra capolavori della haute-couture, e ci sto male pure io. Perché la vetrina non è tutto ma è tanto, specialmente per chi deve spiegare il ciclismo a otto nipoti malati di ve­trinismo soprattutto calcistico. Perché con le ultime scoperte - ma guarda un po’ - l’atletica leggera appare più dopata chimicamente del ciclismo, e il calcio ap­pare dopato economicamente co­me nessun altro sport al mondo. Perché - cosa mia, ma peggio per gli altri - il ciclismo sa di Toro, se proprio dobbiamo parlare di calcio, come mi ha detto, all’età di tre anni, Matteo Ormezzano televedendo la tappa de Tour all’Alpe d’Huez e assistendo bea­to e intanto eccitato al fluire di auto, moto, pedoni con e senza bandiere, bici di amatori, monopattini ed elicotteri, udendo il clangore di un traffico inusuale, con colori mai visti prima, in quello che è il più grande stadio all’aperto del mondo (la sua fra­se: “Nonno, questo è tutto Toro”).

Sciuperei l’occasione? For­se sì, ma che bello che bel­lo che bello, come diceva Nino Frassica, un genio che sa far ridere sempre, venti e passa anni senza cambiare intanto che intorno cambia il mondo, ma per fortuna regge un certo umorismo lunare. Sciuperei l’occasione ma farei contento qualche mio ami­co, persino qualcuno che è su con me ospite di questa stessa pubblicazione, e sono certo che l’indiretto ma sicuro ridimensionamento del calcio avrebbe, alla fin fine, anche un particolare ri­sultato chiaro e sincero: quello di fare apparire più grande il mio Toro. Anzi, ormai il Toro di Mat­teo. Che non è il calcio tutto ma è assoluto naturale e vivacchiamento artificiale, in un mondo che ti sta troppo largo o troppo stretto (la stessa cosa, perché ti trovi sempre male). Ogni tanto viene doverosamente, umanamente nonché periodicamente vo­glia di porsi una domanda: cosa fa­rei se mi fosse concesso un atto (o an­che più di uno, ad esempio un paio o un terzetto di atti correlati) di potere assoluto? Un gio­co che magari non è soltanto un gioco.
Io per esempio sono quasi sicuro che sciuperei l’opportunità eventualissimamente offertami, non dan­dole il giusto peso, quasi fos­se uno scherzo, una seduzione fur­betta del caso per testarmi, e anziché chiedere la fine dell’ingiustizia nel mondo, e già che ci siamo anche quella della prepotenza e della fame, chiederei ma­gari la fine (sportiva, solo sportiva per carità) di una certa squadra di calcio, e di riflesso di tanto calcio. Penserei che in fondo il dio che mi ha fatto l’offerta del potere assoluto, sia pure transitorio, può soddisfarmi senza problemi, visto che mica chiedo troppo…

Se ci penso sopra, addirittura arrivo a decidere personalissimamente che, sempre per far le cose presto e be­nino, chiederei di tornare in­dietro a quando, da un’ogiva di un tempio indiano a Dehli, mi ritrassi allorché, là in basso, quel mendicante che aveva appena fatto ballare per me il suo povero orso ammaestrato alzò gli occhi a chiedermi una misera moneta (correva, correva troppo il 1962, per me giovane pieno più di scoperte che di riflessioni). Io non avevo spiccioli, e allora optai per ritrarmi e sparire alla sua vista, ma feci in tempo a cogliere lo sguardo, persino più malinconico che deluso, di quel poveretto, ed è come se lui continuasse a guardarmi, lo giuro.

Non escludo che, dotato di potere assoluto e avendo un po’ di tempo per pensare e intanto avvertendo che, se esagero nella richiesta chiedendo ad esempio di cambiare il mon­do, rischio di essere accusato di megalomania, nonché di presunzione di sapere chiaramente cosa è bene e cosa è male, e di perdere magari l’offerta, mi sistemo nei miei territori abituali di lavoro e chiedo che il ciclismo abbia finalmente giustizia.

Giustizia perché? Ma Dio Santo (direi proprio così, alla divinità in questione), il ciclismo soffre di decadenza, di vetrina (non tanto di pratica) perché autosputtanatosi con la faccenda del doping, quando ha eseguito su se stesso quelle operazioni etico-chirurgiche, con costi altissimi e dolorosissimi, che nessun altro sport si è auto inflitto. Perché diventato sfogatoio delle ipocrisie altrui e anche parafulmine della dose normale di sdegno tipica degli umani e da esso tutta assorbita. Perché ha su­bìto ma anche si è dato controlli persino feroci (a parte il ca­so Armstrong, dove però sono sta­ti testati prodotti che forse sa­rebbe bene dare a malati e vecchie e bambini perché crescano forti vincendo tanti Tour de Fran­ce di seguito). Perché i polpacci di un giocatore di calcio di adesso sono grossi come le cosce dei loro omologhi di una volta, e credere che sia tutta palestra è da idioti puri e vili. Perché noi del ciclismo ne abbiamo abbastanza di quella benevolenza farisaica che parte dal “poverini con quel che faticano” e finge di sdegnarsi per i guadagni sardanapaleschi di campioni di discipline tutto sommato poco impegnative quando non anche cretine.

Perché non me ne frega niente dei risvolti ecologici che pure raccomandano il ciclismo e lo preservano da una decadenza assoluta, quando poi in vetrina ci sta male, come un abito goffo esposto fra capolavori della haute-couture, e ci sto male pure io. Perché la vetrina non è tutto ma è tanto, specialmente per chi deve spiegare il ciclismo a otto nipoti malati di ve­trinismo soprattutto calcistico. Perché con le ultime scoperte - ma guarda un po’ - l’atletica leggera appare più dopata chimicamente del ciclismo, e il calcio ap­pare dopato economicamente co­me nessun altro sport al mondo. Perché - cosa mia, ma peggio per gli altri - il ciclismo sa di Toro, se proprio dobbiamo parlare di calcio, come mi ha detto, all’età di tre anni, Matteo Ormezzano televedendo la tappa de Tour all’Alpe d’Huez e assistendo bea­to e intanto eccitato al fluire di auto, moto, pedoni con e senza bandiere, bici di amatori, monopattini ed elicotteri, udendo il clangore di un traffico inusuale, con colori mai visti prima, in quello che è il più grande stadio all’aperto del mondo (la sua fra­se: “Nonno, questo è tutto Toro”).

Sciuperei l’occasione? For­se sì, ma che bello che bel­lo che bello, come diceva Nino Frassica, un genio che sa far ridere sempre, venti e passa anni senza cambiare intanto che intorno cambia il mondo, ma per fortuna regge un certo umorismo lunare. Sciuperei l’occasione ma farei contento qualche mio ami­co, persino qualcuno che è su con me ospite di questa stessa pubblicazione, e sono certo che l’indiretto ma sicuro ridimensionamento del calcio avrebbe, alla fin fine, anche un particolare ri­sultato chiaro e sincero: quello di fare apparire più grande il mio Toro. Anzi, ormai il Toro di Mat­teo. Che non è il calcio tutto ma è assoluto naturale e vivacchiamento artificiale, in un mondo che ti sta troppo largo o troppo stretto (la stessa cosa, perché ti trovi sempre male).
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