Non è mai esistita nella storia dello sport una disciplina che abbia assunto su di essa situazioni, compiti, missioni, colpe, passaggi, trasposizioni, impegni storici come il ciclismo. Parliamo ovviamente di coinvolgimento in sede mondiale e non di situazioni spicciole: lo sci di fondo per gli svedesi e per i finlandesi ad esempio è stato coprotagonista, insieme con i guerrieri che lo praticavano per esigenze vitali, di loro lotte epiche contro i danesi e poi contro i russi, in secoli anzi in epoche diverse e lontane, ma di queste storie il contadino francese o l’italiano di paese o lo statunitense di metropoli non hanno mai saputo nulla, mentre la vicenda insieme singola e corale della bicicletta come strumento di lavoro, di trasporto, di svago, in tempi diversi o simultaneamente, ha interessato eccome tantissimi terricoli, li ha riguardati direttamente, esclusi forse quelli di molta parte del continente africano. Il ciclismo ha addirittura impersonato per il mondo tutto il conflitto tra motorizzazione e fatica manuale, tra carburante umano e carburante minerale, tra due diverse filosofie del tempo, dello spazio, della fatica, con abbondanti spargimenti di cultura in molte sue situazioni.
Neanche nell’antichità c’è stato un qualche sport che abbia contenuto dentro di sé così tante istanze persino sociali assortite, che abbia avuto così tanti contatti con la storia, così tanti addentellati con il presente e (questioni ecologiche) con il futuro. Ad un certo punto la bicicletta, che autenticamente si faceva strada nelle città, fu addirittura vista e criticata e quasi vietata come strumento diabolico per scippatori, facilitati dal mezzo nell’approccio rapido alle vittime e nella fuga da esse. E anche rimanendo nell’ambito dello sport, si pensi soltanto (soltantooooo???!!!) alla faccenda del doping, dove il ciclismo ha assunto, sopportato e supportato vari ruoli, da quello della cavia a quello dell’esploratore, da quello di posto dell’illegalità poveraccia a quello di posto di sperimentazioni ad alto contenuto scientifico, da quello di posto del controllo ufficiale acre ed accurato a quello di posto del controllo ufficioso morbido, da quello di oggetto della sperimentazione ingenua a quello di soggetto della pratica più truffaldina. Il caso Armstrong poi ha dato ulteriore immensa pubblicità alla questione, sia quella particolare del campione, sia quella della intera problematica medica e morale della pratica insieme vietata e cercata (e chissà se funziona anche qui la tesi altamente psicologica del “cercata perché vietata”).
Una summa insomma di cose: contatti, interessi, ricerche di vario genere, contributi sociali, attività legislative, attività culturali, persino rappresentazioni, attraverso lo sport, dello status di tutto un popolo. Il Tour de France 1950 ad esempio vide il ritiro coatto dei ciclisti italiani di fronte alle intemperanze del pubblico francese. Con Fiorenzo Magni in maglia gialla e Gino Bartali candidatissimo al successo finale, la faccenda venne presentata ed anche smaltita come un fatto legato ad interessi sportivi, di tifo. In realtà i pericoli fisici maggiori, per i nostri pedalatori, vennero da azioni violente di lavoratori francesi di una industria ciclistica in crisi, minacciati di licenziamento perché sul mercato arrivavano i più convenienti prodotti italiani, reclamizzati proprio in Francia dai successi nostri al Tour.
Di fronte a tutta questa importanza di natura sociale, storica, culturale, e se si vuole anche economica, è possibile che l’espressione agonistica, sportiva di questo fenomeno sia adesso rilegata, in Italia, ad una presenza sempre più ridotta in sede mediatica? È possibile che corse in linea di introduzione al campionato del mondo, corse a tappe come il Giro di Spagna, su certi quotidiani che pure hanno pagine sportive numerose e (per il resto) curate, abbiano spesso diritto soltanto ad una “breve”, come sono chiamate in giornalistichese le poche righe, magari senza neanche un titolino, che riportano sommariamente l’esito di una gara, o forniscono un annuncio di poco conto? È possibile che il ciclismo trovi spazi degni soltanto quando di esso viene trattato un caso indegno? È possibile che con la mondializzazione ormai dello sport della bicicletta (anche l’Africa, presto) noi si sia fermi allo strapaese, all’attesa messianica di un italianuzzo che vinca? È possibile, è possibilissimo. Mettiamo che Moreno Moser sia un campione grosso così: di lui si parlerà soprattutto come del nipote di Francesco...
Davvero non c’è niente da fare? Davvero in tempi di austerità spinta, di ricerca frenetica del risparmio, in tempi di crisi dell’auto sia in senso economico che in senso, massì, culturale, non si possa fare niente per dare alla bicicletta spazi nuovi al di là dello spazio storico (l’aggettivo sa sempre un poco di muffa) ormai assodato e marmorizzato, musealizzato, anzi mausoleizzato, per assegnarle un ruolo forte nei progetti di rinnovamento, in chiave ecologica, della società? Non c’è un politico che, da grillo o da ghepardo non importa, spinga la bicicletta avanti nei progetti di nuova vita urbana e non solo, nella scuola, nei costumi? Non diciamo di fondare un partito, ma di giocare una partita tutti insieme. Come se fossimo davvero una federazione...
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