di Gian Paolo OrmezzParlando di Giro d’Italia e di Francia con gente la più disparata, mi sono venute in mente alcune considerazioni, ovviamente sul ciclismo, che possono forse avere qualche interesse.
Devo subito precisare che, nella veste di giornalista sportivo, antico ma ancora vivo, e di giornalista sportivo cresciuto nel ciclismo, certi dialoghi mi arrivano addosso e mi restano dentro abbastanza facilmente, anzi fisiologicamente. Non si seguono impunemente una quarantina delle due grandi corse a tappe senza poi essere avviluppati in una sorta di dovere/piacere di parlarne anche quando non si è al seguito.
Ma adesso le considerazioni. La prima è che sussiste, persiste e resiste un forte interesse per le due prove, e trattasi di interesse sparpagliato bene quanto a categorie di persone, di un po’ tutti gli ambienti sociali. Con la prevalenza forte però degli uomini sulle donne e degli uomini di campagna su quelli di città: anche se quando un bipede metropolitano si interessa veramente del Giro lo fa con più attenzione e con più informazione del bipede rurale (importante l’avverbio “veramente”: perché per interessarsi del Giro stando nella città bisogna secondo me impegnarsi maggiormente che stando nel paese, dove le corsa ti rotola addosso, con le sue vicende, anche per minore concorrenza da parte di altri eventi che la città ti propone spesso comodamente e fortemente dal vivo, in loco, e non con la mediazione, eguale per tutti, dei mezzi di informazione).
Sul perché di questo persistente interesse, più assoluto e dilatato di un contingente interessamento, confesso di non avere le idee chiare. Interesse assoluto, di natura poetica, umanistica? Interesse relativo, cioè per contrasto con il modernismo motorizzato, l’estremismo economico e perciò morale di tanto altro sport professionistico dove il denaro sembra ormai troppo per non essere anche automaticamente inquinante? Pietismo verso il faticare dei pedalatori? Addirittura espletamento di una sorta di dovere etico (ammesso che ci sia un dovere non etico…), quello di continuare a dare attenzioni ad uno sport che fu tanto amato dai nostri nonni e dai nostri padri? Uno sport che, quando l’Italia anzi l’Europa riemergevano dalle macerie di una guerra, propose figure di campioni altissimamente simboliche e spronanti? Uno sport che impose questi suoi campioni per la sua e loro valenza sentimentale e non per azioni mediatico/pubblicitarie che usano gli atleti più forti e convincenti a fini di ipnosi “politica” delle masse, quando non semplicemente ed esplicitamente a fini di consumismo indotto dalla loro azione come veicoli pubblicitari, come testimonial?
Penso siano possibili risposte diverse ma anche conviventi, e di vario tipo: perentorio o articolato o sfumato o relativistico o dogmatico. Personalissimamente temo di ravvisare, nella persistenza dell’interesse, anche una sorta di benevolenza dovuta, per rispetto di un passato che propone forti nostalgie e per rispetto anche di un presente che impone il rispetto verso un faticare sempre abbastanza brutto, sporco, ferino, che nella vita è ormai di pochi. Più crescono, insomma, le comodità, più ci si sente in dovere di considerare e valutare con affettuosità le scomodità altrui. Non è vero amore, è al massimo comprensiva attenzione, ma insomma…
Alla luce di queste considerazioni, potrebbe anche proporsi un certo tipo di “accettazione di interesse”, da parte di noi ciclofili, non proprio entusiasmante. Sapere cioè che c’è gente che ogni tanto si sposta sentimentalmente dalla nostra parte, e soltanto in occasione di un evento storicamente grande, perché chi pedala suscita tenerezza, quando non addirittura compassione, alle prese con fatiche tutto sommato poco remuneranti e con pericoli sempre immanenti.
E si potrebbe addirittura arrivare ad una scelta drastica: o faticosamente decidere che chi, magari affettuosamente, ci chiede dei ciclisti, del Giro, del Tour sia in qualche vaghissimo modo uno dei nostri, e allora dargli comunque il benvenuto, o mandarlo al diavolo, dicendogli che sappiamo benissimo che si comporta così per farsi una sorta di shampoo alla coscienza sporcata dal suo amatissimo calcio con tutti i suoi miasmi, i suoi milioni sporchi, le sue partite truccate.
Il problema - se è un problema - di una eventuale scelta è di ordine personale. Ma pensiamo si possa anche invitare la federciclismo ad una riflessione: si deve puntare forte sulla valenza poetica del nostro sport (perché non anche con un bel premio letterario che richiami gente valida?) o si devono inseguire gli estremismi degli sport ricchi anzi riccastri, con le loro proposte di drammatizzazione artificiale, costruita, spesso recitata e non davvero vissuta, sperando di piacere agli sponsor grossi, di compiacere le loro “perversioni” pubblicitarie?
La risposta può assumere forza epocale, davvero, anche perché una certa scelta riguarda non solo il ciclismo, non solo lo sport, ma tutta la nostra vita attuale. E adesso basta sennò ci dicono che pensiamo di essere sempre al tempo di Bartali e Coppi.
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