Scripta manent
La littorina e Rohrbach

di Gian Paolo Porreca

Chissà se un giorno davvero ci riusciranno, o ci riusciremo, parliamo dall’osservatorio modesto della Campania, regione dal rischio automobilistico e dal degrado ecologico ben noto, a recuperare per i ciclisti le strade ferrate dismesse. Chissà, se davvero ci potrà essere qui, come quando die­ci anni fa - senza esito favorevole - provarono a fare i Ci­cloverdi intorno al Ve­su­vio, fra Po­migliano e Bru­scia­no, un cicloturismo da esploratori di un Nuovo Mondo.
Dando nuova vivibilità a quei tratturi che non hanno più la condanna delle rotaie, ma dispiegano tuttora panorami incantevoli, disegnati come sono nel verde e per le
colline. Come, ad esempio, hanno ipotizzato gli amici dell’ArcheoClub di Calvi Risorta, la latina Cales, per il recupero in chiave ciclistica appunto della tratta della ferrovia locale dismessa che portava nel dopoguerra e negli anni ’50 dall’entroterra al mare, da Sparanise a Sessa Aurunca Nord, e a Formia.
Ci pensavo qualche giorno fa, valicando ancora una vol­ta, da una vita ormai senza più l’intoppo del passaggio a livello, il dosso sulla strada e quel casello ferroviario che fermava tanto spesso, sulla provinciale di Carano verso l’Appia e Sessa Aurunca, la mia fuga in bicicletta.
Il timore del passaggio a livello che si abbassava, il tintinnio della campanella che non era mica quello dell’ultima ora a scuola o dell’ultimo giro sul Velodromo dei sogni, e l’ardimento che non avevo, quello di certi ciclisti del Tour del ’60 di passare lo stesso, sotto le sbar­re, dall’altra parte.

Il Tour del ’60, chissà perché quando devo trovare un ca­poverso, un punto fermo nel­la vita mia e nel ciclismo che ne ha intersecato le passioni, torno sempre a quell’anno, a quel Tour fatidico.
Certo, era il primo anno che di­ventava estate senza Cop­pi, l’anno delle Olimpiadi di
Roma, l’anno del primo en­tu­siasmo televisivo, l’anno di Berruti pure, l’anno della Coppa Olimpia... L’anno di Gianni Meccia e “Barat­to­lo”... Ma innanzitutto, era il tempo di quel Tour.
Senza più passaggi a livello, in un vecchio libro di Gianni Cerri, andavo certe volte an­cora a ripassarmi i giorni, gli eroi e caratteristi, Graczyk e Defilippis, che poi erano ra­gazzi che tanto spesso non ci sono più. Ma restano lì ancora, ragazzi.
Everaert ed il suo dramma prima di partire ancora, non ve lo racconto, Riviere ed il suo agguato ad Anglade, il più intellettuale dei francesi, la favola italiana che diventava poema, con Nencini e Bat­tistini, con lo scalatore Massignan, con Binda a fare Nazionale.

Il Tour del ’60 era il mio passaggio a livello, sul cui bilico, nelle estati adolescenti mi rifugiavo, io da “regionale”, e che nel tempo sempre più provinciale sarei rimasto. Per nascondermi. La fuga di Nen­cini, Junkermann, Adria­enssens e Riviere, che giustiziava di fatto il connazionale An­gla­de... La perfetta “non raggiungibilità” di Nencini, nel­la discesa del Perjuret e l' addio di Riviere, proiettato nel burrone per inseguirlo, il 10 luglio... La maglia gialla di Nencini, il suo pure sentirsi solo, lui “Carpano”, fra Battistini e Massignan, il duo “Le­gna­no”... Carpano, allora, non era ancora il tempo giusto di un aperitivo, di un Punt e Mes di riflessione.
Senza più passaggi a livello, mi sono ritrovato in cima allo stesso batticuore, ad aspettare lo stesso treno che non passa più, la Littorina, venendo a sapere che è ap­pena scomparso Marcel Rohr­bach, il biondo grimpeur che contese fino all’ultimo, in quel Tour fregiato dal destino, il titolo di miglior scalatore ad Imerio Mas­si­gnan.

Il numero 165 della corsa, il regionale del Centre-Midi, quello che aveva stabilito il record della scalata del Galibier, l’anno prima, “lo strabiliante Rohrbach”, come aveva titolato Pierre Chany. Nono nella classifica finale, a Parigi, al Tour del ’60, un posto proprio davanti a Massignan. «Ma chi vuoi se lo ricordi ancora...».
Noi e Massignan, almeno, che per 4 punti, 56 a 52, nella tappa di Thonon, lo avrebbe superato nella graduatoria così preziosa degli scalatori.
E che ci fermammo insieme, lo ricordo bene, in una estate lontana, dalle mie vacanze di luglio il caldo del Tour, ad un passaggio a livello chiuso, a bere da una borraccia di latta.

Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino"
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