Sono preoccupato per il Giro. Lo dico con sommo dispiacere, perché è di gran lunga l’occasione che più amo nel ciclismo. Ma forse è proprio per questo che mi scattano i pensieri. Parlandone da vivo, ho la netta sensazione che si sia buscato un brutto accidente.
Già se n’era discusso nei mesi scorsi: tutta una gran festa per la decapitazione, finalmente, di Angelo Zomegnan, brutto, sporco e cattivo, colpevole e responsabile di tutti i mali. Poi il periodo delle incertezze, delle voci e delle dicerie, tocca a questo e tocca a quello, di sicuro Bergonzi, però in concorso con Bulbarelli e Beppe Conti, magari con una zampa a livello tecnico di Martinello. Ne ho sentite e ne ho lette di ogni, fino alla decisione finale: cambia poco, è il corpaccione di prima senza la testa. Resta la squadra: più coinvolto Michele Acquarone, il manager, più responsabilità alla coppia Vegni-Allocchio, gli specialisti. E via che si riparte.
Lo confesso: sono andato alla presentazione, nonostante già tutto si sapesse in largo anticipo, con molta ansia e con una certa curiosità. Sono persino riuscito a digerire la prolissa cerimonia, dove si è puntato quasi tutto sulla commemorazione dei morti, salvo il deprecabile incidente di dimenticarne uno molto caro e molto importante, Ferrero Junior, che bene o male di questa corsa resterà per sempre un papà nobile. Ma pazienza, sono sviste in buona fede. Più che altro, l’anno prossimo vediamo di spostare il vernissage in una data più consona: certamente il 2 novembre lo è.
Purtroppo, camera ardente a parte, è il resto che angoscia. Sin dal primo momento il Giro 2012 ha giocato a carte scoperte. Non ha fatto nulla per nascondere i suoi punti critici e le sue debolezze. Niente: con raro senso di masochismo, con alto sprezzo del ridicolo, il Giro ha convocato una sfilza di campioni per sentire dalla loro viva voce che se ne guarderanno bene dal correrlo. Contador, Nibali, Hushovd: tutti dimissionari prima ancora di cominciare. Sopravvivono, di quella ecatombe, i soli Basso e Scarponi. Persino Cobo, che nessuno sa chi è, ma che comunque è pur sempre il vincitore dell’ultima Vuelta, girerà alla larga. Praticamente, affrontiamo l’inverno pregando tutti i santi che venga almeno uno Schleck, nel segreto timore che alla fine verrà quello scarso.
Quanto al percorso, non ne parliamo. La nuova gestione esibisce con orgoglio la sua scelta, contro le sadiche megalomanie della carogna Zomegnan: guardate che sciccheria, due settimane senza sforzi, persino senza ignobili trasferimenti, e alla fine tre arrivi in salita veri, con il solo tappone di Mortirolo (taroccato) e Stelvio a mettere davvero paura. Evviva, come siamo umani, abbiamo inventato il Giro light, meno duro e meno crudele, alla portata di tutti, in questo senso autenticamente e sportivamente democratico.
Bello, se piace a loro. Peccato che un Giro così esista già da sempre e si chiami Tour. Due settimane noiose come le tasse, due o tre tappe di montagna neanche tanto feroci, quindi tutti a Parigi per festeggiare la grandeur sui Campi Elisi. E noi, che ultimamente eravamo riusciti a scrollarci di dosso la nomea di imitatori, di cinesi del ciclismo, di patetici replicanti, di nuovo pronti a confezionare un anonimo simil-Tour. E non mi vengano a dire che Cervinia è un salitone: lo conosco, sarebbe perfetto per il Tour. Piuttosto questa era, lo dico con orgoglio e con rimpianto, “la corsa più bella del mondo nel Paese più bello del mondo”. Un marchio di qualità, un prodotto tipico. O ricordo forse male?
Sì, lo dico ad alta voce: temo fortemente che il dopo-Zomegnan parta malissimo. L’attuale gestione - di squadra - fa della dimensione internazionale il suo obiettivo primario, meglio detto target. Ho qui sulla scrivania i depliant della nuova edizione: tutto è scritto in inglese, l’italiano è in caratteri piccolissimi e ben nascosti. Mi vengono in mente i libroni del Tour: col cavolo che privilegiano l’inglese. Eppure non mi risulta che il Tour soffra di provincialismo, che in giro per il mondo nessuno lo conosca. Noi però abbiamo nel Dna questo complesso di inferiorità, sin dai tempi di Alberto Sordi e del suo memorabile “uotts-ameriga”. Ma va bene, facciamo quelli che sanno le lingue e che si aprono al mondo: globalizziamoci. Però, amici cari, concedetemi solo un ultimo però.
È questo: il Giro dell’internazionalizzazione (porco demonio, che parola) ha certo bisogno della lingua inglese, ma prima di tutto, per farsi gradire e amare all’estero, avrebbe bisogno di appeal. Do you know appeal? Ma sì, avrebbe prima di tutto bisogno di avere un grande percorso all’italiana, cattivo il giusto, cioè un percorso di Mortiroli e Zoncolan, di Plan de Corones e Strade bianche, un prodotto cioè veramente nostro, inimitabile, con dentro salite che abbiamo soltanto noi, sterrati che abbiamo soltanto noi, paesaggi che abbiamo soltanto noi, persino vulcani che abbiamo soltanto noi. Questo come punto di partenza. Ma poi, per catturare davvero le attenzioni di tante nazioni, bisognerebbe avere campioni di tante nazioni. E noi? Noi andiamo incontro a questi mercati con una volgare imitazione del Tour e con un duello Basso-Scarponi. Sai che libidine, sai che botte davanti al video, dall’America alla Cina, per una cosa del genere. Aggiungo: proprio il percorso light, disegnato per non spaventare e anzi attirare campioni stranieri, sarà il più povero di iscrizioni straniere. Questo per chiarire una volta per tutte che non è la durezza a metterli in fuga. Forse è il contrario.
Lo so, forse sono troppo apprensivo. Ma non riesco a non essere preoccupato. Già mi viene il mal di testa alla sola idea di presentare questa cosa ai vertici del mio giornale. Immagino gli imbarazzi e le difficoltà di tutti i miei colleghi. Ma immagino anche la risposta dei nuovi organizzatori: e chissenefrega se gli italiani non ne parlano. Noi guardiamo al mondo. Giusto. Faccio solo presente che andiamo ad aprire la bancarella sul mercato internazionale con il Giro più casereccio e provinciale degli ultimi anni. Proprio stavolta. Al momento, ha tutta l’aria del campionato italiano a tappe. Che idea: e chiamarlo così?
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