Rapporti&Relazioni
Hemingway

di Gian Paolo Ormezzano

Mettiamo che nasca un Ernest Hemingway e che sia appassionato di ci­clismo. Mettiamo che, come molti grandi scrittori francesi, e ricordiamo per tutti Antoine Blon­din che ci fu amico personale, ab­bia voglia o senta il bisogno artistico/sentimentale di esprimersi su un giornale per raccontare la stra­ordinaria quotidianità di un Tour de France o di un Giro d’Italia. Lo farebbero scrivere, sui nostri giornali? Dire di sì pensando a Gio­van­ni Arpino che in tempi abbastanza recenti ha scritto molto di calcio e qualcosa di ciclismo e di pugilato su La Stampa e poi, meno, su Il Giornale, è troppo facile e decisamente sbagliato. Perché stiamo parlando di ciclismo, e dai tempi di Arpino lo spazio lasciato al ciclismo sui giornali politici e ormai anche sui giornali sportivi è diminuito di molto. Intanto che lo stato della nostra cultura si è im­mi­serito, al punto che siamo purtroppo certi che neanche un Cer­van­tes redivivo troverebbe adesso spazio (e compensi decenti) per narrare la avventure donchisciottesche dei suoi beneamati ciclisti.

Attenzione, scriviamo queste cose in chiave di curiosità, se volete di piccola indagine innocua, non di nostalgia dei tempi in cui il ciclismo era “pre­da”, sui giornali, dei cosiddetti pro­lifici cantori. I quali erano sgram­maticati ancorché amorosi, fatte ovviamente le debite (poche) eccezioni, e scrivevano di uomini e vicende che non vedevano con i loro occhi, perché stato delle strade e meccanica delle auto cospiravano contro eventuali, eventualissime velleità di stare addosso alla corsa, di privilegiare la testimonianza degli occhi rispetto alle se­duzioni della fantasia, dell’immaginazione, dell’invenzione. Molti cantori (non Orio Vergani, che era soprattutto uno “di fuori” occasionalmente imbrancatosi al seguito di una corsa) arrivavano spudoratamente ma sempre amorevolmente a riferire di loro dialoghi in cor­sa con i campioni: i quali campioni davano, intanto che pedalavano ma­gari in alta quota e nelle intemperie, notizie della loro salute, del­la loro strategia di gara, e annunciavano sfracelli o partecipavano il timore di una cotta. Tutto veniva pubblicato, tutto veniva letto religiosamente. Erano tempi bellissimi, davvero.

Passo alla prima persona, davvero obbligatoria, per dire che mi è occorso, nella mia alba giornalistica ciclistica, di conoscere e frequentare non pochi di questi cantori, quasi tutti signori anziani e però ancora pieni di amore per il mondo della bicicletta, nonché cortesi con il neofita bambino che ero. Con uno fra i più celebri presi subito l’abitu­di­ne, al mio primo Giro d’Italia, an­no 1959, di formulare al via di ogni tappa il mio augurio: “Buona giornata e buon lavoro”, gli dicevo con deferenza autentica. E lui, sempre: “Grazie caro, ti leggo”. Senza ov­via­mente sapere chi io fossi.
Io giovane esordiente al Giro volevo vedere il più possibile i corridori, loro che comandavano la rotta e soprattutto i tempi all’autista, cercavano dal primo all’ultimo chilometro di stare lontani dal polverone, comunque dal mucchio, dalla confusione, diciamo anche dal ri­schio. Si viaggiava sempre davanti, molto davanti al gruppo, per intercalarci fra uno o più fuggitivi e il cosiddetto plotone bisognava che ci fossero tanti minuti di distacco. Non era ancora l’Italia delle autostrade e dunque bisognava approfittare almeno della chiusura del traffico sul percorso, per procedere con sicurezza e se del caso rapidamente (adesso si va subito, più veloci della luce, in sala-stampa, a fare la cuccia davanti alla televisione). Per vedere i corridori dovevo salire su una motocicletta e arrivare intriso di pipì, visto che la nuvola atomizzata di urina spray, urina di corridore-che-la-fa-in-corsa, era una appendice fantozziana fissa del­la corsa, un must quasi lustrale.

Torno ad Hemingway. Fac­cia­mo finta che un grande giornale gli faccia adesso un gran bel contratto per avere i suoi resoconti dal Giro. Di cosa scriverebbe? Il ciclismo è anche una cor­rida, ma ogni spettatore “dal vivo” ha una visione rapida, subliminale di essa, e basta. Il nostro Hemingway salirebbe allora su una motocicletta? O pretenderebbe un’auto con il permesso speciale di starsene fra i corridori? E se poi gli stessi corridori da questa auto venissero sbattuti fuori strada (memorie dell’ultimo Tour), almeno godrebbero una descrizione del­ loro incidente fatta da una grande penna?
Comunque Hemingway scriverebbe più di uomini in corsa o di uo­mini ai lati della strada? Dell’Italia riferirebbe, “pennellerebbe” gli splendidi panorami superstiti o le brutture in crescita costante? E c’è poi la grande domanda: sarebbe, questo Hemingway, letto, seguito, apprezzato? O dovrebbe soccombere egli pure alle immagini televisive, che frugano dove lui con tut­ta la sua arte, con tutto il suo me­stie­re, non può arrivare?

Mi rendo conto che sin qui ho fantasticato, ho zigzagato, rischiando quella creazione e fornitura di aria fritta ti­pica purtroppo di tanti ar­ti­coli. Un Hemingway non c’è più, e se ci fosse chissà a cosa si dedicherebbe, mi vien da dire. Poi però mi pro­clamo certo che almeno non ap­plicherebbe il suo talento, la sua brama feroce e nobile di raccontare, ad una partita di calcio: troppo facile, fra l’altro si vede tutto, ed è un tutto che tutti vedono. Fini­reb­be, lì, per scrivere come tutti co­suc­ce di comodo e al massimo po­tremmo dire alla latina che “quandoque bonus dormitat Homerus”, di tanto in tanto sonnecchia anche il buon Omero.
Finisco dicendo che il ciclismo si meriterebbe comunque le attenzioni, gli entusiasmi, la poetica, la fantasia di un Hemingway o chi per esso. Il ciclismo dei cuori semplici e della chimica contorta, delle gambe segnate dalla fatica e delle braccia cotte dal sole, il ciclismo al quale si può appiccicare qualunque fantasia, adesso come un tem­po, con la certezza di non prevaricarlo mai e intanto di essere sempre in debito con lui. Di più non so scrivere. Sono mica un He­ming­way.
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