Scripta manent
Sono tornati gli spagnoli veri?

di Gian Paolo Porreca

Abbiamo ancora un so­gno segreto, e da adesso non più, in questa notte del ciclismo: credere ancora, per vero, nel ciclismo spagnolo.
E già, se ogni storia è una storia assolutamente personale, nella vita come nello sport, ci ripetiamo..., noi ci siamo chiamati in bicicletta Fornara, Le Dissez, Kar­stens, abbiamo corso come francesi, italiani, olandesi. Ma dentro di noi, quando co­minciava più intensa l’estate, il Giro che finiva ed il Tour dietro la curva di giugno, eravamo «naturalmente» spagnoli. Fino, diciamo, per rientrare nella realtà, a Pedro Delgado ed al probenecid del Tour 1988. E tanto prima, e in fondo tanto me­glio, di Saiz, dell’Ope­racion Puerto, del doctor Fuentes, di Valverde, Contador vs Contador, Sevilla. Mo­sque­ra...

Ci affascinava tanto l’eroi­­smo loro e quella sfumatura di mala sorte talora ad esso intricata. Ci piaceva il coraggio sal­ga­riano, quel cuore carat­terial­men­te oltre l’o­sta­co­lo, del ciclismo spagnolo. Ci pia­ceva, in sintonia alla nostra pau­ra, l’abilità in salita e la paura in discesa: pensate a Bahamontes, a Fuente, quegli scalatori che i minuti faticati sui monti li dilapidavano frenando nelle picchiate sui fondo valle.
Ci catturava, di quei visi bru­ni e spigolosi, una smorfia sofferente spesso, una storia contadina, la vocazione alla solitudine. Allora, come ora, certo.

Ci chiamavamo, dun­que, Fer­nando Man­za­neque, ca­bal­lero tri­ste di lunghe tra­versate, al Tour. Ci chia­ma­va­mo, nome celeste, An­ge­lino Soler, che visse in un pa­io di Giri, scattando alla Pan­tani. Ci chiamavamo, dispersi sem­pre nei primi die­ci al Giro e al Tour, An­tonio Lorono e Josè Perez Frances, “un bel tenebroso...”, si diceva.
Ci chiamavamo, ancora, per quell’incrocio dicevo fra l’eroismo di un partigiano alla Garcia Lorca e la cattiva ventura di un Don Chi­sciot­te alla Cervantes, Antonio Go­mez del Moral, quello spagnolo dolorante e ferito che perse la sua maglia rosa a Napoli, nel Giro ’67, ca­du­to sul Volturno: come un ga­ribaldino, lasciato nel sangue e derelitto.
Eroi soli, per vocazione, co­me Antonio Menendez, che nel Giro ’76, quello della mor­te di Santisteban, sorvolò il Giro (un titolo non dimenticato della Gazzetta di allora), vincendo a Gabicce con 13 minuti di distacco...

Eroi straordinariamente soli, ancor più soli, come Josè Vie­jo, in una gerarchia delle distanze dal resto del mon­do, che in una tappa del Tour arrivò al traguardo ad­dirittura con più di 22 minuti di vantaggio sul secondo!
O pure atleti di una squadra che correva all’unisono, co­me la Kas del ’73: Fuente, Galdos, Miguel Maria Lasa, un nome che era musica, Lazcano, uno spagnolo bion­do, scomparso presto, Pe­sarrodona, e Vicente Lopez Carril, lui che non doveva finire mai di tirare in salita e che andò invece a morire su una spiaggia per una partita di calcetto... Il calcio sì che fa male al cuore.
Si chiamano oggi Vicioso, Ventoso, Anton, Nieve, oltre a Contador, questi spagnoli che hanno entusiasmato e trionfato al Giro, padroni, quest’anno. Hanno maglie diverse, Mo­vistar Euskatel Team An­dro­ni Saxo-Bank, ragioni sociali extra-iberiche che di unani­me hanno dav­ve­ro poco, al­cuni vincono in volata, non da soli, come in­vece nel no­stro cult immaginario... Eppure quanto ci piacerebbe poter riconoscere in essi una tonalità comune, una deno­mi­nazione di ori­gi­ne con­trollata.

Ma sono ancora spa­gnoli veri, gli spagnoli che vincono e stravincono, dal 2000 in qua? Chissà.
Sono ancora i nipoti originali di Jaime Alomar, il tracagnotto della Cite che vinse - unico straniero in quella edizione autarchica del Giro -, a Campobasso nel ’63? Co­no­scevano bene Valentin Urio­na? Il nostro sogno, in attesa che si avveri, è ancora qui.
Che non siano spagnoli “truc­­cati”. Che non siano mo­derni, ma antichi.
Mentre noi continueremo a chiamarci ancora, in quello stradone di campagna, la Sta­zione di Sessa Aurunca sul fondo, fra i campi trebbiati e un trattore che va, e i tuoi esuli pensieri, con il sole di giugno che non perdona la distanza e il ricordo, Fer­nan­do Manzaneque.
Manzaneque, da solo, senza amore. Neanche un bar o un bi­strot, tantomeno un mo­tor-home in quel Tour. (E Fernando, vi raccomando, non Jesus).

Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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