Abbiamo ancora un sogno segreto, e da adesso non più, in questa notte del ciclismo: credere ancora, per vero, nel ciclismo spagnolo.
E già, se ogni storia è una storia assolutamente personale, nella vita come nello sport, ci ripetiamo..., noi ci siamo chiamati in bicicletta Fornara, Le Dissez, Karstens, abbiamo corso come francesi, italiani, olandesi. Ma dentro di noi, quando cominciava più intensa l’estate, il Giro che finiva ed il Tour dietro la curva di giugno, eravamo «naturalmente» spagnoli. Fino, diciamo, per rientrare nella realtà, a Pedro Delgado ed al probenecid del Tour 1988. E tanto prima, e in fondo tanto meglio, di Saiz, dell’Operacion Puerto, del doctor Fuentes, di Valverde, Contador vs Contador, Sevilla. Mosquera...
Ci affascinava tanto l’eroismo loro e quella sfumatura di mala sorte talora ad esso intricata. Ci piaceva il coraggio salgariano, quel cuore caratterialmente oltre l’ostacolo, del ciclismo spagnolo. Ci piaceva, in sintonia alla nostra paura, l’abilità in salita e la paura in discesa: pensate a Bahamontes, a Fuente, quegli scalatori che i minuti faticati sui monti li dilapidavano frenando nelle picchiate sui fondo valle.
Ci catturava, di quei visi bruni e spigolosi, una smorfia sofferente spesso, una storia contadina, la vocazione alla solitudine. Allora, come ora, certo.
Ci chiamavamo, dunque, Fernando Manzaneque, caballero triste di lunghe traversate, al Tour. Ci chiamavamo, nome celeste, Angelino Soler, che visse in un paio di Giri, scattando alla Pantani. Ci chiamavamo, dispersi sempre nei primi dieci al Giro e al Tour, Antonio Lorono e Josè Perez Frances, “un bel tenebroso...”, si diceva.
Ci chiamavamo, ancora, per quell’incrocio dicevo fra l’eroismo di un partigiano alla Garcia Lorca e la cattiva ventura di un Don Chisciotte alla Cervantes, Antonio Gomez del Moral, quello spagnolo dolorante e ferito che perse la sua maglia rosa a Napoli, nel Giro ’67, caduto sul Volturno: come un garibaldino, lasciato nel sangue e derelitto.
Eroi soli, per vocazione, come Antonio Menendez, che nel Giro ’76, quello della morte di Santisteban, sorvolò il Giro (un titolo non dimenticato della Gazzetta di allora), vincendo a Gabicce con 13 minuti di distacco...
Eroi straordinariamente soli, ancor più soli, come Josè Viejo, in una gerarchia delle distanze dal resto del mondo, che in una tappa del Tour arrivò al traguardo addirittura con più di 22 minuti di vantaggio sul secondo!
O pure atleti di una squadra che correva all’unisono, come la Kas del ’73: Fuente, Galdos, Miguel Maria Lasa, un nome che era musica, Lazcano, uno spagnolo biondo, scomparso presto, Pesarrodona, e Vicente Lopez Carril, lui che non doveva finire mai di tirare in salita e che andò invece a morire su una spiaggia per una partita di calcetto... Il calcio sì che fa male al cuore.
Si chiamano oggi Vicioso, Ventoso, Anton, Nieve, oltre a Contador, questi spagnoli che hanno entusiasmato e trionfato al Giro, padroni, quest’anno. Hanno maglie diverse, Movistar Euskatel Team Androni Saxo-Bank, ragioni sociali extra-iberiche che di unanime hanno davvero poco, alcuni vincono in volata, non da soli, come invece nel nostro cult immaginario... Eppure quanto ci piacerebbe poter riconoscere in essi una tonalità comune, una denominazione di origine controllata.
Ma sono ancora spagnoli veri, gli spagnoli che vincono e stravincono, dal 2000 in qua? Chissà.
Sono ancora i nipoti originali di Jaime Alomar, il tracagnotto della Cite che vinse - unico straniero in quella edizione autarchica del Giro -, a Campobasso nel ’63? Conoscevano bene Valentin Uriona? Il nostro sogno, in attesa che si avveri, è ancora qui.
Che non siano spagnoli “truccati”. Che non siano moderni, ma antichi.
Mentre noi continueremo a chiamarci ancora, in quello stradone di campagna, la Stazione di Sessa Aurunca sul fondo, fra i campi trebbiati e un trattore che va, e i tuoi esuli pensieri, con il sole di giugno che non perdona la distanza e il ricordo, Fernando Manzaneque.
Manzaneque, da solo, senza amore. Neanche un bar o un bistrot, tantomeno un motor-home in quel Tour. (E Fernando, vi raccomando, non Jesus).
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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