Il ciclismo è lo sport dei poveri di spirito. Che non sono quelli poco spiritosi, o addirittura poco intelligenti. Casomai il contrario. Il Discorso della Montagna, uno dei massimi documenti sociali mai emessi al mondo, dice che sono beati coloro che nello spirito sono poveri, nel senso che si comportano da poveri. Cioè da semplici, da puri, da onesti, da gentili, da generosi. Povero di spirito, nel senso appunto di “detentore” di uno spirito da povero, può essere anche un uomo ricco, se si preoccupa e si occupa di chi non ha, se aiuta i deboli, se col suo denaro fa cose buone e giuste per il mondo “altro”.
Basta andare ai bordi di una strada quando passa una corsa, per trovare tanti poveri di spirito accorsi lì per altri poveri di spirito. Basta assistere al Processo alla Tappa, e confrontare gli interventi che avvengono su quel palco con gli interventi di campioni, dirigenti, tecnici e giornalisti in occasione di rituali e furibonde congreghe calcistiche. Basta ed anzi è meglio ancora stare sotto il palco del Processo, tra la gente, e fare certi raffronti con un certo altro pubblico televisivo.
Io ho nostalgia forte dei tempi in cui essere povero di spirito nel ciclismo era un fatto, era un esito, era un comportamento quasi automatico. Adesso il denaro che circola anche lì, la forza delle sponsorizzazioni e comunque della pubblicità, l’immanenza del doping (visto che il ciclismo si ostina a fare, a darsi un serio antidoping: se come tanti altri sport non lo facesse, o lo facesse male, non avrebbe, nel senso almeno che non lo rileverebbe, un così vistoso doping), rendono più difficile che un tempo essere poveri di spirito. Ma si può ancora esserlo, eccome, anzi in molti lo sono: e tutti comunque dovrebbero provare a esserlo, dovrebbero impegnarsi a esserlo, si capisce anche quelli di altri sport.
Ci sono molti splendidi poveri di spirito sulle strade del Giro d’Italia, come del Tour de France o della Vuelta spagnola o dei giri di Belgio, Svizzera, Germania… Ci sono anche nei circuiti di provincia, nelle kermesse che non sono solo roba di un certo Nordeuropa ciclofilo e magari ciclomane. La gente va a quelle manifestazioni, pagando fra l’altro il biglietto e smentendo chi dice che va sulle strade delle corse in linea o delle prove a tappe soltanto perché lo spettacolo è gratuito, ci va sapendo comunque di poter assistere a dimostrazioni di impegno, di vedere fatica vera e onesta, anche se sa che il ragazzo di casa, l’enfant du pays, non viene ostacolato troppo in certe volate. Anzi, anche questo fa parte del poverismo, meglio del pauperismo di spirito.
Io mi ricordo povero di spirito, grande povero di spirito quando ero piccolo (grande e piccolo: due aggettivi che nel ciclismo non sono sempre opposti o addirittura conflittuali). Finiva il Giro d’Italia e subito, spesso addirittura il giorno dopo il traguardo finale, posto solitamente a Milano, si disputava, al motovelodromo di Torino, il “Giro d’Italia in pista”, annunciato da manifesti in tutta la città. I “reduci dalla corsa rosa” (così erano definiti dai giornali gli eroi della fatica raccontati ed anzi cantati sino al giorno prima) venivano chiamati ad una serie di prove, il cui “clou” era appunto quella che dava il nome alla manifestazione tutta, di solito una gara individuale a punti, dove si tifava perché Tizio, che a Milano aveva indossato la definitiva maglia rosa, vincesse: perché era come se lì, per i presenti/paganti di quella sera, andasse in scena lo spettacolo raccolto, condensato, del Giro tutto, esito conclusivo compreso (e di solito era una sera di pioggia, anzi la meteorologia di allora manco si impegnava sulla riunione, troppo facile la previsione di maltempo, sulla zona del motovelodromo se non in tutta la città di Torino: e in effetti per lunghi anni fu pioggia fissa, ancorché non sempre tale da costringere al rinvio o all’annullamento).
Io credevo - e me ne vanto - al Giro d’Italia in pista. Stavo in buona e folta compagnia, e religiosamente ascoltavo quelli che dalla pedalata giudicavano un campione, pronosticandogli ancora energie da far valere al Tour de France, oppure, e magari a voce alta, urlata perché lui sentisse, consigliandogli il riposo. Io sono stato, in quella come in altre occasioni, poverissimo di spirito, e ne sono felice. Ogni tanto riesco a ritornare povero di spirito. Voglio citare e ringraziare, per l’occasionissima offertami, il Giro di quest’anno, che è partito dalla mia Torino nel lungo week-end che era anche degli alpini, i quali sono forse la congrega con percentualmente più poveri di spirito, così che il mondo delle penne nere e quello delle magliette coloratissime hanno fatto amicizia immediata, per tre giorni semplicemente stupendi, giorni puliti e rotondi come è ormai difficile trovare e vivere, specie in città.
E chiudo con un’idea folle, onde evitare il finale lattemiele che non mi piace mai. Visto che Milano e Torino hanno pur sempre dei motovelodromi, ancorché abbandonati dai ciclisti, perché non tornare al Giro d’Italia in pista del day after (essì, bisogna adattare la terminologia ai tempi), trasformando però la manifestazione in una sorta di playoff, come ormai di moda in tanto altro sport? Per chiarire alcune classifiche, dirimere alcune contese farmacistiche, sospendere addirittura la corsa rosa tutta ad un’estrema sentenza, al pegno di un ultimo handicap. Mettiamo, tanto per dire, che Tizio sia primo nella classifica finale però soltanto con 10” di margine su Caio secondo, e che questi 10” siano stati conquistati con abbuoni speciali e barocchi e farlocchi, o in virtù di un incidente: ecco che la validazione di questo vantaggio avviene soltanto se in pista Tizio riesce a superare una certa prova. Idea, la mia, da migliorare, da levigare, ma forse non da buttare subito via. Mi rendo conto della pazzia tecnica, ma per una volta si potrebbe provare. I poveri di spirito magari riuscirebbero a rendere i playoff qualcosa di nuovo e profumato. Amen.
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