Un giorno della estate ormai andatasene La Stampa mi ha chiesto un commento sul fatto che la nobile città di Ivrea (la bella, la olivettiana) ha deciso di liquidare tutta la pavimentazione in pavé tuttora esistente nelle vie e piazze del centro: a lungo andare dannoso per le sospensioni delle auto, scivoloso e dunque pericoloso in caso di frenata sotto la pioggia, tutto fatto di blocchetti di porfido che si stanno staccando, eccetera. Un articolo per le pagine di cronaca del giornale della mia città e di tanta mia vicenda giornalistica, anzi per una edizione destinata all’hinterland torinese. La mia collaborazione con la redazione della cronaca esula dal mio status di giornalista sportivo, e infatti scrivo di tutto ma quasi mai di sport. In questo caso, e proprio all’insegna di quel “quasi mai”, mi è venuto bene di scrivere anche in quell’occasione di sport, anzi di ciclismo. Perché fra l’altro nell’articolo ho proposto e poi scritto (e in redazione ci hanno fatto sopra il titolo) di cedere gratuitamente, con casomai le sole spese di spedizione, il pavé alla città di Roubaix, che ne cerca sempre per la mitica e la mistica della sua corsa, visto che ormai anche i paesini dell’inferno del Nord vogliono pavimentazioni moderne e danno l’addio ai cubetti voluti da Napoleone III per le vetture a cavalli, cioè per la presa degli zoccoli. Roubaix ha bisogno di pavé, ormai da tempo la corsa parte non da Parigi ma da Compiègne proprio per avere meno chilometri da fare sino appunto ad arrivare in prossimità di Roubaix e potersi così avvitare, nel finale, intorno alla città, in paesini davvero “ini”, usando i pochi tratti di pavé rimasti e in questo modo arrivando a coprire il chilometraggio classico.
Ho colto l’occasione per riprecisare che, contrariamente a quanto scrivono molti giornali italiani quando riportano della Parigi-Roubaix, non si tratta di corsa franco-belga. Roubaix è in Francia, il confine col Belgio non è lontano ma neanche troppo vicino, non c’è neanche un metro di sconfinamento, e insomma sarebbe come definire la Milano-Sanremo corsa italo-francese sol perché Nizza è a due passi e al casinò sanremese il croupier dice rien ne va plus.
Ma adesso qui allargo il tema, così: la strada diciamo museale, quella della conservazione del passato e della sua rievocazione periodica, è valida, è rischiosa, è patetica, è l’ultima chance, è un dovere, è un diritto, è regola di sopravvivenza, è saggezza di marketing? Dove per strada si intendono non asfalto e pavé, bensì tendenza, programmazione, diversificazione, realismo, percorso, invenzione, necessità...
Il pensiero, pensierino, pensieraccio, pensierissimo di un ciclismo che si rassegna allo strapotere del motorismo e anziché cercare di togliergli un po’ di strada (stavolta il termine è da intendere in senso letterale) si chiude, si affida alle memorie, insomma si fa museo di se stesso, ogni tanto mi percorre, in maniera intrigante. Mettere tutto, metterci tutti in un museo, insomma, senza più scendere in strada, sulle strade. Esporre memorie epiche ed irripetibili, sistemare in apposite teche la nostalgia, fare belle oneste orge di pensiero, e smetterla di disturbare col passaggio della corsa gente che ha tante cose bellissime da fare anche nell’ambito della sua frequentazione diciamo sportiva, tipo 1) ammazzarsi di lavoro per comprare l’abito griffato, 2) sbavare dietro ai calciatori, 3) affidare ad auto e moto pilotate da altri i sogni di dinamismo vitale, 4) cercare nella visione degli sport estremi il brivido che la cultura non garantisce, anzi che la cultura sdemonizza o esorcizza, 5) varie ed eventuali…
La vicenda del pavé, di Ivrea o di Roubaix o di qualsiasi posto dove ci siano o potrebbero esserci delle biciclette, in fondo suggerisce l’idea di un museo delle pietre, che per noi del ciclismo sarebbero subito pietre autenticamente preziose. Il monumento eretto a Coppi in quel di Torino e una serie di teche nel Museo dei Campionissimi a Novi Ligure propongono in effetti pietre delle montagne famose del ciclismo, pietre e anche cubetti di porfido, quello della corsa francese mitica che Coppi domò e quello della salita svizzera della Crespera, dove Coppi vinse il titolo mondiale 1953. Non so bene se si tratta di una preveggenza, di una provocazione, di una sorta di prima pietra lanciata in chissà ormai quale stagno. Provo a usare questa rubrica per un altro lancio, poi chi sopravviverà vedrà.
gggggg
Sarò pazzo ma ogni volta che arriva l’estate e mi trovo in posti di vacanza conclamata, cioè quelli pieni di gente che non sa cosa fare, o lo sa ma non ha più soldi per farlo, mi viene in mente che sarebbe bellissimo o quantomeno interessantissimo offrire a questa gente ciclismo sotto forma di gare in circuito, e pazienza se con premiazione sulla spiaggia o addirittura sulla rotonda sul mare.
Sarebbe un modo per fare propaganda, fare conoscere i campioni o gli aspiranti ad esserlo, spiegare ancora che l’automobile non è tutto, a gente che tiene in quei posti l’automobile ferma, tanto più di cento metri all’ora non si possono fare.
Ci vorrebbe un grande sponsor intelligente, disposto a spendere tanto, ma non tantissimo se si pensa al costo di certe campagne. Si potrebbe inventare un Grand Prix, tipo atletica, con classifica generale e premio finale tipo una bicicletta d’oro. Si potrebbe tentare la carta delle scommesse sulle volate, sempre che gli uomini riescano a dare più fiducia dei cavalli. Mi rendo conto che l’argomento è delicatissimo. Un Giro d’Italia a punti con gare sulle località marine e anche montane più celebri rischierebbe di apparire una bestemmia. Non resta che aspettare che lo inventino in Francia, e poi copiarlo.
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