Scripta manent
Matignon e i Tour on the Rooks

di Gian Paolo Porreca

Non c’è, una volta in più, molto da spe­rare, a proporre af­fetti sul ciclismo. Poco da fare, al solstizio di estate del 2009, per dettare l’inciso per un buon Tour. Niente da fa­re, e ben al di là della pre­ve­dibile modestìa della nostra partecipazione che di per sè non esalta.
L’ennesima confessione su un passato sospetto, quella resa da Steven Rooks, il corridore olandese della PDM che in parallelo con il connazionale Gert-Jan Theu­nisse, monopolizzò - manco fossero spagnoli delle Astu­rie, gli olandesi dei Paesi Bassi - la maglia a pois di mi­glior scalatore al Tour e gli ar­rivi in quota, nel biennio ’88-89, ci ha francamente sconfortato.

Ne abbiamo buttati giù dav­vero sin troppi, fra Rjis ed Ullrich, Virenque e Piepoli, Riccò e Landis, Schumacher e Kohl, di Tour on the Rooks.
E ci ha lasciato ulterior­men­te perplessi la tempistica le­galitaria della ricostruzione: «ho preso Epo anche io, con Jakobs ed Hermans, ma solo dal 1989 in poi. Per poter restare a galla nel ciclismo di allora...» E giù di lì, con gli abituali riferimenti alla sco­perta rivoluzionaria dell’Epo applicata al ciclismo, made in Italy, a Ferrara.
Bello a crederci, dunque, se le cose stanno proprio così, ma chi ci crederebbe dav­ve­ro, che allora il famoso se­condo posto da lui ottenuto al Tour ’88, alle spalle di Pe­dro Delgado “truccato” al Probenecid e perdonato dall' UCI per ignoranza dei re­go­lamenti CIO, sarebbe stato dunque arcimeritato? Un se­condo posto, quello di Rooks, ancora senza Epo, forse... Ma non senza ana­bo­lizzanti e testosterone, come aveva dichiarato, anni prima, a buona memoria, in una altra “confessione”.

E sciocchi noi, ci ve­rebbe da chiedere scusa ai lettori, se in una pagina di questo gior­nale, nel ’95, salutavamo Rooks al suo congedo, sot­to­li­neandone una vicenda in­tima che ci era parsa espres­sione di grande sensibilità umana.
Ricordando cioè come aves­se abbandonato il Giro del ’93, solo alla seconda tappa, perché psicologicamente trop­po provato dalla se­pa­ra­zione dei suoi genitori... Bellissimo anche questo, a crederci. Nel ’93, passato Rooks dalla Pdm alla Fe­stina.
E così ci rassegniamo, per una parola, per un concetto, a rivolgerci ad un Tour de France molto più lontano. Per trasmettere un signi­fi­ca­to che travalichi quel dato tecnico che ormai ci rende onestamente scettici.
Ed è buona, per il Tour 2009, una lezione che viene dal Tour di 40 anni fa. Era il 1969, il primo grande Tour di Merckx. Ed era l’estate palpitante dello sbarco sulla Luna.
Era un giorno, anzi, il giorno prima, il 20 luglio 1969, in cui si correva al Tour la tap­pa più ambita, partenza da Brive e arrivo sul Puy de Do­me, una montagna da classici del ciclismo.

Ebbene, tutti aspettavano il leader Merckx al traguardo, o almeno un protagonista straniero popolare come Gi­mondi, o un binomio di francesi maggiori come Pin­geon o Poulidor.
Ed invece a domare il Puy de Dome sarebbe stato “so­lo” Pierre Matignon, un modesto regionale di quella armata di ventura - Jourden, Agostinho, Harrison, Gutty - che era la Frimatic di De Gri­baldy. Matignon, il nu­mero “88”, la “lanterne rou­ge” di quel Tour, l’ultimo in classifica. Prima di quel successo insperato, che lo avrebbe promosso a pe­nultimo, davanti ad Andrè Wilhelm. Per un gesto di coraggio incredibile, portato in sfida ad un gruppo che procedeva pigro. Gli ultimi, o giù di lì, saranno i primi, o no? Almeno sul Puy de Dome, la “montagna del Signore”.

Quarant’ anni fa, ed una eternità prima dei Tour on the Rooks, Matignon inse­gna­va come la Luna ognuno di noi potesse conquistarsela anche sulla Terra. Con il co­raggio, la fantasia, il cuore...
Ed era naturale credervi. Il giorno prima che un Arm­strong di nome Neil ne sancisse un contrario di cuore uguale.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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