Scripta manent
Le Tour c'est Mura

aro Gianni,
comincio così anche stavolta, come tanti anni fa, e per molti anni, quando mi veniva da scriverti - a penna, Pelikan blu, non c’erano mica i computer - nell’après-Raschì, dopo il Tour.
«Caro Gianni, ti scrivo, così mi distraggo un po’»: sì, non abbiamo pudore, cominciavamo proprio così, sul ritornello di una canzone...
Oggi, caro Gianni, senza più speranza alcuna di distrarmi, ti scrivo mentre il Giro sta finendo, e forse ha vissuto il suo meglio in corsa, con Di Luca Simoni Riccò, ma certamente ha conosciuto il suo peggio prima di partire, con lo sconforto e la malinconia di Basso e la sensazione di un libro chiuso.

Ti scrivo, prima del Tour, per il tuo libro - «Giallo su giallo» - che ho qui davanti. Sì, su un terrazzo di fronte al mare, e con una bottiglia di vino bianco freddo: quello di Ischia, quello senza etichetta, del “Bracconiere” di Buonopane. E mi sono tuffato, restando maldestramente a galla, in questo romanzo che al di là e al di qua di tutto - trama, riferimenti culturali, disquisizioni enogastronomiche - è un epinicio al “tuo” Tour, al tuo vivere, al tuo essere Tour de France e filo-Tour de France. Di fronte al nostro attuale malessere di osservatore di ciclismo, è invidiabile il tuo abbandono consapevole, il tuo ruolo di interprete, di elemento in causa di una carovana e di una filosofia: una controfirmata, encomiabile ciclosofia.
Ed è impagabile come ti metta tu in prima persona in giuoco, in una storia dalle tinte noir, tu Giornalista Italiano con i tuoi attributi personali di giocatore musicofilo amante della tavola buona, al centro di una serie oscura di delitti che squarcia la corsa, mentre va avanti - quello spettacolo che va, come va la vita - il Tour del 2005: tappa dopo tappa. Tu al centro, Gianni, e si può essere al centro, come se intorno a te girasse un compasso, raccontando in prima persona, solo se si è innamorati di una storia. Delle cose estranee, si scrive in terza persona.

Questo tuo bel libro aperto, che mi ha curiosamente ricordato, al di là della ovvia sintonia con Simenon, l’atmosfera ombrosa di Frantic, un film di Roman Polanski, forse per l’intrigante ritorno del nome Dédé o l’indimenticabile bellezza tragica della ragazza-vittima Isabelle Seigneur, resta un omaggio che nè Blondin, nè Chany, e forse neanche Nucera, hanno offerto mai al Tour. Un Tour come un viaggio dei fedeli a Lourdes, un Tour come purificazione, lavacro... Il primo Tour vero, disputato per intollerabili motivi editoriali da corridori con nomi falsi. Il primo Tour della storia vinto da uno scrittore italiano. (E se mi concedi, lo hai vinto una seconda impercettibile volta, strizzando l’occhio a quanti non confondono Van Linden con Van der Linden, quando hai ottenuto con qualche sotterfugio certo che gli editor non hanno colto, di ottenere che almeno il nome Merckx, quello solo, MERCKX, restasse vivo in corsa!).

Bravo, caro Gianni, continuo a leggere, mentre il commissario Magrite va avanti nelle indagini, di Armstrong/Sheldon, di Mc Namara/Mc Ewen, Keller/Ullrich, Mantovani/Savoldelli, Zanovych/Popovych, Schneider /Totschnig, ed in questa falsità - dove verissimi siete tu ed il Decano, salutamelo, gli voglio bene, oltre a Carletto -, ho sorpreso indifeso il tuo amore per Basso, il Valli - valli a capire... - del libro. Quando intervieni, paterno, per aiutare l’esordiente giornalista francese che ha sostituito lo scomparso Dédé ad avere un’intervista dal corridore italiano.
E ti presti a chiamarlo tu con un Sms dal tuo cellulare: «perchè Valli, se vede un numero che non conosce, non risponde».
Cosa dirti ancora, Gianni? Che condivido il rispetto per Sheldon/Armstrong.
Che senza i nostri padri non saremmo quello che siamo io e te e tanti che amano il ciclismo: onesti. Cosa dirti ancora, dopo questo Giro di Di Luca Simoni Riccò, mentre il pomeriggio tramonta e Basso se ne è andato insieme allo pseudonimo Valli e agli altri numeri di telefono sbagliati che conosceva, fatto salvo il tuo? Ti auguro un altro Tour di nomi falsi. E di ciclisti veri.
Come te.
Gianpi

P.S. Ho ritrovato un tuo vecchio libro di poesie, «Parole per», 1969. Ricordi quando scrivevi «Le mie parole / sono vecchie monete fuoricorso»? Credimi, saremo fuori corsa noi, ma non le tue parole.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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