Gatti & Misfatti

Le vittorie non si contano, si pesano

di Cristiano Gatti

Sta diventando una nuo­va disciplina mondiale, ma confesso che non mi attira per niente: contare le vittorie di Pogacar. Questo buon uomo non è ancora riuscito a farsi accettare come extrafenomenale - sì, confermo fino alla noia, fino alla lapidazione: l’idea più prossima a un secondo Merckx -, che già deve sottoporsi a un nuovo esame davanti alla corte spietata dei sommi sa­cerdoti. L’idea di partenza: prima di dire che è il nuovo Merckx, vediamo quante vittorie mette assieme, poi eventualmente se ne riparla. È una vi­sione materialistica, cinica, arit­metica della realtà. Non ha nulla di romantico e di artistico. È quello che ci tocca di questi tempi, in cui il gusto è arrivato a livelli terra terra, con tan­ta gente che non riesce più a distinguere Guerra e Pace da una velina del TG1, un Giot­to da un imbianchino, un Battisti da un trapper, un articolo di Pansa da un lancio d’agenzia Ansa. Bisogna resistere, ma è sempre più dura: i tribunali del popolo non hanno pietà e non fanno prigionieri. Cosa vuole questo Pogacar, vediamo quante corse vince, poi se ne riparla...

Un gusto appena appena sensato, critico, consapevole evidentemente sa andare oltre i numeri. Senza tanta teoria, la faccio molto pratica: dal mio punto di vista, le vittorie di un campione sono come le azioni di una società, non si contano ma si pesano. Tornando a Pogacar: adesso che è arrivato alla soglia del Cento, non mi cambia niente. Cinquanta o duecento farebbe lo stesso. Scorrendo l’elenco delle (prime) Cento, difficilmente si incontrano tappette al Giro di Malesia o roba del ge­ne­re. Ma di questo si parla poco o niente. Ormai le vittorie di Teddy si contano, non si pesano. Eppure, a costo di scagliarmi contro i mulini a vento, vorrei mettere un punto fermo a questo andazzo: le vittorie di questo prodigio moderno sono sempre pesanti, vere, pregiate. Per male che vada, Teddy vince alla Tirreno-Adriatico o al Del­fi­nato, ma nessuno potrà negare che neppure queste al giorno d’oggi siano vittorie minori o minorate, vista la fame e gli iscritti che girano in zona. In ogni caso, non tocca a me fare la lista della spesa: spulciare il Centinaio di Teddy è un incredibile viaggio nella caccia grossa del grandissimo ciclismo.

Neppure Yamal ha ancora segnato e vinto quanto Messi: eppure giustamente tutti stanno parlando con largo anticipo del nuovo Mes­si, o anche meglio. Quelli del calcio non fanno testo, perché notoriamente esaltati e trinariciuti? E va bene. Ma può starci anche un’altra spiegazione: quelli del calcio ancora san­no distinguere il dribbling su­per, il tiro super, l’intelligenza super, insomma uno spettacolo super rispetto alla normalità di un buon giocatore. Non mi pa­re sia così nel ciclismo: qui c’è tutto un movimento di vera re­sistenza militante per soffocare ogni riconoscimento all’eccezionalità, come una specie di in­conscia invidia davanti all'inarrivabile, per trattenerlo qui sul­la terra, vicino a noi, vicino al­la nostra normalità, quando non è mediocrità. Siamo pur sempre quelli che definiscono e titolano “impresa” la fuga da 40 chilometri di una mezza tacca con l’ora di distacco in classifica, senza tante distinzioni rispetto alla fuga da 70-80 chilometri di un uomo in lotta per la maglia di leader. Siamo pur sempre quelli che si esaltavano allo stesso modo e ugualmente titolavano a nove colonne per le vittorie di Visconti o di Nibali, senza offesa per nessuno, solo per dire che le vittorie sono tutte belle, ma così di­ventano tutte uguali e allora non si capisce cosa sia ad esempio una corsa Monumento.

Guardando i numeri, a 26 anni Pogacar ne ha uno grandioso, Cento, da far già saltare sulla sedia. Eppure a me non fa né caldo né freddo, perché senza essere suo padre o anche solo suo cugino, ma neppure amico o cortigiano, salto già abbastanza sulla sedia per il dove e per il come, per il nome di questi trofei e per il modo di andarseli a prendere, in linea e a tappe, in montagna e in discesa, a febbraio e a ottobre, contro qualunque avversario. Questo è il nuovo mito di Pogacar, non il suo numero. Questo è lo spettacolo che l’epoca ci ha incredibilmente re­ga­lato: un capolavoro di qualità, non di quantità. Che poi vinca o perda un Tour, non mi cambia davvero niente. Non sarà una sconfitta a sminuire e rimpicciolire il gigante (per la cronaca, come ha ricordato lui stesso nelle bellissime interviste degli 80 anni, anche Eddy perdeva, citofonare Maertens, a caso).

Chiudo tornando nella mia cesta, lasciando fuo­ri la stucchevole di­scussione che si rinnova ogni volta davanti a una vittoria o a una sconfitta di Teddy. Come nel gioco dell’oca, si torna sempre da capo, alla casella uno. Che noia. Preferisco godermi la fortuna di questa Epifania slovena, nell’epoca in cui il prodigioso e il fenomenale non sembrava più possibile, tutto quanto sovrastato e annichilito dalle scienze e dalle tecnologie. Ov­viamente, auguro a tutti di riuscire un giorno a mettersi cal­mi, senza furori partigiani, e godere lo spettacolo. Ogni la­sciata è persa. Di questo genere, non ne capitano tante. Ogni cinquant’anni.

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