
UN CLIC E VIA
di Gian Paolo Ormezzano
Divento sempre più geloso del ciclismo che feci in tempo a conoscere ed amare anche e soprattutto da giornalista, quello diciamo ancora eroico, incarnato per il ragazzino che ero da Coppi e Bartali, però con sub-eroi speciali, di scelta mia sofisticatella se vogliamo, che si chiamavano Ortelli, Fornara, Petrucci, Ronconi, Minardi (favoloso soprannome: Pipazza), che erano un lampo in salita di Massignan e un lunghetto forte operare di Battistini, ed infine nel 1960 ecco il gran Nencini del Tour, tutto un suo ruggito contro il ciclismo chic dei dotati e datati speciali, su tutti fuori Italia Anquetil paraCoppi, pseudo Fausto, forte e gentile e biondastro che fa fine. Nel 1965, quando il Tour fu del gran Gimondi, era già un altro ciclismo diciamo pure moderno, oppure no, io ero un altro io, fisiologicamente cambiato, e aiutato da un giornalismo che mi dopava e premiava vedevo la cosa in maniera sempre nuova e cangiante (aiutato anche da Motta). Avevo scordato il Moser nel senso di Aldo maglia rosa fugace in due Giri, ritrovai la schiatta grazie al fratellissimo Francesco, con la nobile opposizione di Saronni che La Stampa definiva “il piemontese” perché il lombardissimo Beppe era nato per mere ragioni ospedaliere a Novara.
Feci in tempo ad acchiappare un bel po’ di ciclismo diciamo residuo eroico grazie al Giro d’Italia 1959, il mio primo, non tanto per quell’edizione (vincitore Gaul, lussemburghese, assolutamente non un simpaticone), quanto perché in giro per il Giro c’erano ottimi e abbondanti residui gloriosi di Coppi e di Bartali. Esordientissimo io, nel senso che ero lì sol perché scelto mesi prima del via da Carlin, il direttore di Tuttosport, soprattuttoto in quanto ottimo nel decifrare i suoi pezzi e passarli ai tipografi o dettarli (programmazione per il Giro a venire) agli stenografi: morto il 25 aprile di quel 1959, Carlin mi aveva comunque chiaramente designato e la sua scelta venne rispettata. Sapevo della vita del suiveur dai racconti di Ruggero Radice in giornalismo soprattutto Raro (RAdice ROger, era nato in Francia), Tuttosport e Gazzetta del Popolo, amico di famiglia. Conoscevo tornante per tornante le salite celebri, narratemi appunto dagli articoli dei cantori massimi, su tutti Bruno Roghi. Sapevo del giornalista bipede tenero devoto a tutti i corridori e da tutti amato, ammesso ad amicizie e confidenze forti. Sapevo delle sue cene sempre trimalcionesche, la sera nelle sedi di tappa, e credevo pure che fosse tutta vera la relazione, scritta ohibò sul giornale, delle prodezze dei pedalarori. Discepolo attento e silente, feci comunque presto ad accorgermi che i giornalisti della corsa non vedevano nulla, la loro tutta una fuga in auto chilometri davanti al primo, in compenso erano straordinari innamorati inventori di imprese, dialoghi, sketches, performances speciali, curiosità. Mi adeguai presto alla categoria degli aspiranti cantori, coltivai gli omaggi più giusti alle figure di maggior rilievo dela corsa tutta, spartii a fondo il rito delle supercene a fine tappa e fine lavoro. E vidi diligente tanti arrivi di tappa. E tanto altro, vidi, ebbi.
Ecco, sembrerebbe tutto uno scacco personale, nel senso di un amore di routine quando finalmente potevo metterlo io in scena, recitarlo a modo mio. Invece no, il Giro e poi il Tour offrivano al suiveurs davvero una sorta di vita vasta e perdurante al di là del calendario delle gare, una vita non solo intensamente vissuta, ma votata nel tempo rituale della corsa badando a non disturbare i corridori con la presenza delle nostre auto, e nel resto del tempo alla sacralizzazione costante della fortuna di essere lì, nel cosiddetto ambiente del ciclismo massimo. E questo anche fuori dai confini diciamo temporali della vicenda rosa e di quella gialla. Nel senso che giornalisti e corridori e addetti vari si frequentavano appena possibile, con presentazione di gente di famiglia, di amici, e se il giornalista capitava nella città o nel paesello del ciclista lo andava a visitare anche se proprio non c’era niente da scrivere. Così arrivai anche a conoscere e frequentare, sino a cene a casa sua, l’immenso Eddy Merckx (ma è un’altra storia).
In 29 Giri e 15 Tour ho vissuto davvero il calore costante, tutto l’anno, di quelle due corse, la bolla di ricordi, freschi e no, che portavo sempre con me. Intanto però tutto cambiava, nel mondo/mondo e nel mondo anche dello sport, il progresso seduceva con le sue invenzioni, io invecchiavo, sempre più tenevo stretta e ben chiusa la bolla dei ricordi, senza accorgermi che il tempo la ossidava e la faceva valere sempre meno. E ad un certo punto mi sono sentito trasmigrato dentro un involucro vecchio, molto usato, di giornalista nostalgico, viziato dalla sua fortuna, vizioso di attesa continua come un vecchio bavoso davanti alla scuola delle ragazzine.
Il ciclismo in mio possesso mentale e magari onirico cercava di essere sempre lo stesso, ma le seduzioni tecnologiche e non solo lo circuivano, lo pomiciavano e lo spampanavano, lo stupravano, lo costringevano a mutare, a mutarsi in continuazione. L’unica costante era che i giornalisti falsi suiveurs continuavano ad assolutamente non disturbare i corridori in corsa. Intanto i giornalisti puri e vogliosi sembravano asceti cretini, si poteva spesso stare comodi in redazione e basarsi sulla televisione sempre più ricca di seduzioni, intanto che i giornali riempivano meno spazi per via di un ciclismo elettronico, preciso dunque meno poetico e niente manipolabile. E alla fine ecco il giorno in cui la corsa ha perso calori e colori, c’è e la si vede in tv, tutti e tutto comunque tutti la stessa cosa, senza occhiali speciali per nessuno, e i giornalisti giovani, assai tecnologicizzati come anche i tifosi, ti spiegano che ormai archivio, storia, sentimenti, ambienti momenti, tutto si ottiene con un clic del coso, del computer. Un clic che offre, dà, regala ma intanto svaluta, perché è un clic eguale per tutti. E nessuno comunque mi crederebbe se gli dicessi che al Tour, una sera che era quasi notte, un corridore famoso e impegnato per la vittoria finale mi fece dormire nel letto in più della sua stanza onde evitarmi un ritorno all’albergo lontano. Sparito anche quel ciclista. È bastato un clic, che è in fondo sempre lo stesso.