Hinault: «Amo l'Italia e con il Tour...»

di Giulia De Maio

Cinque Tour de France (1978, 1979, 1981, 1982 e 1985), tre Giri d’Italia (1980, 1982 e 1985), due Vuelta a España (1978 e 1983), un campionato del mondo (1980), una Parigi-Roubaix, due Giri di Lombardia, due Liegi-Bastogne-Liegi, due Freccia Vallone, una Amstel Gold Race e l’umiltà del campione vero. Il mese scorso abbiamo avuto l’onore di pedalare insieme a monsieur Bernard Hinault, uno dei ciclisti più vincenti della storia (ha partecipato a 12 grandi giri vincendone 10, vanta 216 trionfi dal 1975 al 1986, ndr) e di conoscere una bellissima persona. Una leggenda super disponibile. Un nonno che ci ha mo­strato con orgoglio le fo­to dei nipotini con indosso le sue maglie di un tempo ma che discretamente ci ha pregato di non pubblicarle. Un campione che segue tutt’oggi il ciclismo con passione, affetto e competenza.
Sulle strade dell’Emilia Romagna, che con Toscana e Piemonte ospiteranno l’inedita Grand Départ della Grande Boucle del prossimo anno, ci siamo incollati alla ruota del mito bretone, ancora veloce nonostante viaggi verso i 69 anni, e non ci siamo fatti scappare l’occasione di chiedere un giudizio sul ciclismo di oggi al “tasso” più noto della storia. Le Blaireau è il soprannome che gli hanno affibbiato per la sua tenacia e la capacità di nascondersi all’interno del gruppo, per poi attaccare nel momento decisivo, cogliendo di sorpresa gli avversari ed è ancora at­tuale e calzante per l’acume che gli ri­conoscerete leggendo quest’intervista che ha concesso a tuttoBICI in esclusiva.
Oltre a raccogliere parecchi aneddoti legati alla sua incredibile carriera (in­sieme ad Alberto Contador, è l’unico ciclista nella storia ad aver vinto almeno due volte tutti e tre i Grandi giri, ndr), abbiamo scoperto il suo debole per i talenti che stanno dominando at­tualmente in ambito internazionale, che non userebbe la radiolina in corsa in modo convenzionale e che ha un legame profondo con l’Italia da cui per la prima volta nel 2024 partirà il Tour de France.
Hinault sarà a Firenze il prossimo 29 giugno?
«Spero proprio di sì perché in Italia mi sento come a casa. Ci sono stato a correre tante volte, è il Paese dove ho trascorso più giorni dopo la Francia. Cu­stodisco tanti ricordi del Giro, dei paesaggi attraversati, dei monumenti visitati, delle città di partenza e arrivo, della gente, che ancora oggi mi riconosce. È stato interessante provare il tratto finale della prima frazione con arrivo a Rimini, 205 km con 3.800 metri di dislivello. Sulle salite di San Leo, Mon­te­maggio e San Marino chi vorrà lottare per la maglia gialla dovrà farsi trovare già pronto. Come diceva giustamente anche Davide Cassani, faranno già la dif­ferenza anche la Cesenatico-Bolo­gna, 200 km omaggio al grande Marco Pan­tani, e la Piacenza-Torino (225 km) che ci riavvicineranno al confine francese».
Le piace il ciclismo di oggi?
«Tantissimo. Stiamo assistendo a qualcosa di fenomenale con Pogacar, Vin­ge­gaard, Roglic, Evenpoel, Van der Poel, Van Aert, Ayuso e tutti questi talenti favolosi. Da quando sono nel ciclismo, e ormai sono un po’ di stagioni, non ho mai visto così tanti corridori giovani sbocciare tutti insieme. È una meraviglia vedere come corre questa generazione».
Il corridore in cui si ritrova di più?
«Tadej Pogacar corre e vince dalla primavera all’autunno, quest’anno si è imposto al Giro delle Fiandre, alla Frec­cia Vallone e all’Amstel Gold Ra­ce, è stato protagonista al Tour, al mon­diale e lo sarà anche a Il Lom­bar­dia. È meraviglioso vederlo in testa alle corse da inizio a fine stagione. È quello che più assomiglia a me, ad Eddy Merckx, a Francesco Moser, in generale ai campioni della vecchia generazione perché si può giocare sia i grandi giri che le classiche monumento».
Chi vincerà il Tour 2024?
«Pogacar. Quest’anno non ci è riuscito perché è stato rallentato dall’infortunio al polso rimediato nella caduta alla Lie­gi-Bastogne-Liegi, ma con una preparazione senza intoppi secondo me è il più forte in circolazione. Escludo un tris di Jonas Vingegaard perchè Tadej avrà dalla sua la voglia di rivincita, che è una grande motivazione. La mia filosofia è: alla sera si cena insieme, ma la ga­ra è gara. Questi ragazzi corrono come noi una volta, senza risparmiarsi mai. I regali si fanno solo ai compagni o al massimo agli avversari connazionali, se può essere utile prima del mondiale... Al via di ogni corsa mi presentavo per vincere, allo stesso tempo so­no sempre stato un uomo di parola. Al Tour de France del 1986 ho mantenuto l’impegno preso. L’anno prima avevo promesso a Greg Lemond che se mi avesse aiutato a vincere il mio quinto Tour io avrei ricambiato il favore l’anno do­po. Così è stato».
La Jumbo Visma sta dominando...
«Hanno vinto tutti e tre i grandi giri di quest’anno con tre uomini diversi, com­plimenti a loro. È una super squadra con tanti soldi e quindi tanti buoni corridori. La differenza la fa il budget, come in passato aveva fatto Sky/Ineos se hai margine per acquistare gli atleti migliori poi è più semplice vincere. Per lo spettacolo è un peccato che ci sia un team così predominante, idealmente sarebbe meglio avere un parterre più bilanciato, ma è stato bello vedere trionfare Sepp Kuss in Spagna dopo che aveva aiutato i compagni al Giro e al Tour. La riconoscenza è im­por­tante. Roglic ha meritato il Giro co­sì come Vingegaard il Tour, ma per Primoz d’ora in poi sarà sempre più difficile ripetersi perché sta per compiere 34 anni e penso abbia già iniziato la parabola discendente. Con i giovani talenti che scalpitano avrà vita dura».
Lei ha smesso presto. Quando ha capito che era ora di dire basta?
«Lo decisi a 26 anni. Iniziai a gareggiare a 17 e vinsi fin dalla prima gara. Arrivavo dalla corsa a piedi, poi provai ad imitare mio cugino... Eddy Merckx e Jacques Anquetil erano i miei due idoli e avevo visto che a 33 anni avevano cominciato a non essere più così performanti e non volevo fare la stessa fine così 6 anni prima di compiere 32 anni decisi che arrivato a quell’età avrei smesso. Volevo finire all’apice e ci sono riuscito. Nei miei 12 anni di pro­fessionismo mi sono tolto tante sod­­disfazioni e non ho rimpianti. Vin­cere la maglia iridata a casa mia, a Sal­lanches, fu memorabile. Nel 2027 il Cam­pionato del Mondo si disputerà sullo stesso percorso, che è ricordato come uno dei più duri di sempre. Con­tinuo a pedalare sia con la bici muscolare che con quella elettrica, con la se­conda di recente ha scalato il Mont Ventoux in scioltezza, godendomela. Ora non ha più senso andare “a tut­ta”».
La maglia iridata sta bene addosso a Ma­thieu van der Poel?
«Eccome. A Glasgow ha attaccato una volta, la seconda ha fatto il vuoto, poi è caduto ma è comunque riuscito a ta­gliare il traguardo due minuti prima di av­versari di assoluto livello come Van Aert, Pogacar e Pedersen. In­cre­di­bile e bellissimo. Assistere alle sue sfide con Wout van Aert anche nel ciclocross è uno spettacolo da ammirare a bocca aperta per chi ama il ciclismo. Il belga va forte su ogni terreno, in volata, a cro­nometro, in salita... Anche se ha raccolto tanti secondi posti resta un cavallo di razza e per me ha fatto bene a lasciare la vittoria a Laporte alla Gand-Wevelgem. Se fai un regalo a un tuo compagno in una corsa, stai pur certo che nelle successive darà ancora di più l’anima per ripagarti e questo spesso farà la differenza. Questi ragazzi hanno forza, intelligenza, carattere. Sono un sogno che si avvera per il no­stro sport».
Un altro fuoriclasse indiscusso è Evene­poel.
«Nelle corse di un giorno Remco ha dimostrato quanto vale in più occasioni, nelle corse di tre settimane è difficile dire fin dove potrà arrivare. Ha di­sputato due Giri d’Italia, senza riuscire a finirli. L’anno scorso ha vinto la Vuel­ta, questa volta ha avuto una crisi nera sul Tourmalet e non ha più potuto lottare per la generale. Il giorno dopo però ha dimostrato un gran carattere. Una giornata no può succedere a tutti, anche a me. Ricordo quando sul Croce Domini nel 1982 persi la maglia rosa, il giorno dopo c’era in programma una tappa breve ma esplosiva: 110 km con l’arrivo a Montecampione. Misi a tirare fin dalla partenza la squadra al completo e appena iniziata la salita salutai tut­ti: vinsi con 4’ di margine (ricorda con un largo sorriso soddisfatto, ndr). Così si fa, se si hanno le gambe e la testa per ri­scattarsi. L’anno prossimo Evenepoel dovrebbe cimentarsi per la prima volta con il Tour e lì capiremo se può iscrivere il suo nome tra i grandi delle corse a tappe o meno. Se così non fosse continuerà a dare spettacolo come ha fatto finora e sarà comunque uno spasso se­guirlo. In Spagna non si è ripetuto ma ha conquistato tre tappe, la maglia a pois di miglior scalatore e ha avuto una reazione incredibile dopo la debacle sul Tourmalet».
Farebbe cambio con la sua epoca?
«Sì, la tecnologia mi ha sempre affascinato e aiuta senz’altro la performance. Nel 1984 fui il primo a usare i pedali a sgancio rapido, per realizzarli ci ispirammo agli scarponi da sci. L’anno successivo fui il primo in sella a un telaio in carbonio. Ho svolto i primi test in galleria del vento per migliorare l’aerodinamica e, grazie anche ai miei studi in meccanica, ho sempre guardato avanti e offerto spunti utili alle azien­de con cui ho lavorato. Sarebbe divertente correre contro questi ragazzi, ma a pari età (ride, ndr). Ormai sono un “vecchio” ma qualcosa da insegnare loro ce l’avrei. Oggi a parte qualcuno non sanno guidare bene, ca­dono troppo di frequente. Io ai rifornimenti non passavo mai oltre la quinta posizione e sono caduto solo tre volte in carriera, una al Delfinato, una al Tour e l’ultima in una corsa dietro mo­tore. Non so come me la sarei cavata con i computerini o i social media, ma con l’auricolare all’orecchio sì. Nella radiolina non farei parlare chi c’è in am­miraglia ma parlerei io. A questo proposito ricordo il Giro di Lombardia 1979. Quel giorno decisi di andare in fuga molto presto, a 160 km dall’arrivo. Con me restarono cinque corridori tra cui Silvano Contini, l’unico che riuscì a tenere la mia ruota fino quasi al traguardo di Como. Subito dopo il mio attacco, si affiancò l’ammiraglia di Cy­rille Guimard (per otto stagioni suo direttore sportivo alla Gitane Renault, ndr) e, arrabbiatissimo, mi chiese che cosa stessi facendo. Era molto contrariato per quell’azione anticipata. La mia risposta fu perentoria: “Oggi vo­glio vincere. Io penso al manubrio del­la mia bici, tu al volante della tua macchina”».
Il Tour è la corsa più importante di tutte. Cos’ha in più di Giro e Vuelta?
«Il Tour è stato il primo e resta al pri­mo posto, in tutti gli aspetti. Dalla ca­rovana pubblicitaria al villaggio, per il numero di giornalisti accreditati e la qualità dei corridori, tutti i migliori vo­gliono esserci, in più si corre a lu­glio, nel periodo delle vacanze quindi quando si disputa tutto il mondo è lì».
Qualcuno riuscirà prima o poi a realizzare l’accoppiata Giro-Tour che a lei è riuscita ben due volte, nel 1982 e nel 1985?
«Sicuramente. Anche oggi si possono disputare tutti e tre i grandi giri per puntare alla vittoria. Corressi ora io ci proverei, c’è abbastanza tempo tra l’uno e l’altro per recuperare, se non si punta ad altre corse intermedie. Kuss è un esempio lampante, ha lavorato duro al Giro per Ro­glic, finendo 14° in classifica generale, e al Tour corso in ap­pog­gio a Vingegaard è terminato 12°, per poi vincere la Vuelta. In campo femminile l’en plein era riuscito ad Annemiek van Vleuten, che di recente ha scritto la parola fine di una eccezionale carriera. Il movimento femminile continuerà a crescere, le cicliste guadagneranno più soldi, tutte le corse più importanti avranno l’equivalente prova femminile. Ci sono sempre più donne in bici, corrono bene, è avvincente se­guirle, la loro bagarre è entusiasmante».
Il ciclismo italiano vive un momento di difficoltà.
«Vi mancano squadre e i corridori più importanti militano in team stranieri, ma il movimento soprattutto femminile è florido. Nel 2024 sarà difficile vedere un azzurro trionfare alla Grande Bou­cle, ma uno come Filippo Ganna prima o poi vestirà la maglia gialla. È uno specialista delle cronometro e quando ricapiterà un prologo in avvio di Tour... In ottica classifica generale invece non ha possibilità, in alta montagna è un’altra storia. Anche noi francesi non abbiamo un nome in grado di battagliare alla pari con i big di cui abbiamo parlato prima, ma sono periodi ciclici. Il Belgio ora ha due-tre ottimi corridori, ma l’ultimo loro connazionale in grado di vincere il Tour è stato Lucien Van Impe nel 1976. Basta avere pazienza e continuare a lavorare come sapete fare».
Cosa si aspetta dalla grande partenza del Tour dal nostro paese?
«Sarà una festa della bici. Mi aspetto tanto pubblico, una bella organizzazione e un successo come quello registrato in Spagna e Danimarca negli anni passati. Non mancherò e ne approfitterò come sempre per mangiare e bere bene. Siete sempre molto ospitali e vado pazzo per la vostra cucina. Potrei andare avanti all’infinito a pasta e ri­sotto con un buon bicchiere di vino e magari anche un limoncello o una grappa, come quella che con Francesco Mo­ser ci bevevamo prima delle tappe del Giro».
Oltre al ciclismo, cosa c’è nella vita di tutti i giorni di Bernard Hinault?
«Mia moglie Martine, che pedala più di me, i nostri figli Mickaël, classe 1975, e Alexandre, del 1981, che da ragazzi hanno praticato tennis, calcio, motocross e ogni volta venivano paragonati a me. “Non sei bravo come tuo padre” dicevano loro, se avessi saputo che sarei diventato così famoso avrei dato loro il cognome di mia moglie per farli vivere più sereni. Ci riusciranno i miei nipoti, Lucien di 7 anni e Armand di 9. Per ora si divertono con il rugby, il calcio, il tennis e la bici. Il piccolo sgomma nel vialetto di casa con la mtb e poi dice: “nonno, hai visto che la bici fu­ma?”. Ci tengo che pratichino sport, se sarà il ciclismo o un’altra disciplina sa­rà una loro scelta. A me ha insegnato il gioco di squadra, a fare gruppo con compagni e personale, a rapportarmi con la gente. In tv oltre al ciclismo se­guo soprattutto automobilismo e motociclismo, continuo ad amare lo sport a 360°».
Chiudiamo con un saluto ai lettori di tuttoBICI.
«La vita è fantastica e se si ha una passione lo è ancora di più. Vi invito ad approfittare del vostro bellissimo Pae­se per andare in bici, in salita, in collina, in pianura. Avete tutti i terreni che si possano desiderare. E venite alla grande partenza del Tour de France 2024, sarà una festa indimenticabile e un’occasione unica. Ci vediamo lì».

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