Claudio Cozzi, il tecnico che ama la sostanza

di Nicolò Vallone

«Alla ribalta mediatica preferisco il lavoro dietro le quin­te». Sarà per questo che trovare su Google interviste di Claudio Cozzi non è così immediato. Il che non vuol dire che non ami parlar di ciclismo: quando abbiamo chiacchierato insieme a lui prima di Natale per il podcast BlaBlaBike sono volati cinquanta minuti di conversazione (puntata 144, ascoltare per credere) e il mese scorso è stato ben lieto di raccontarci le sue impressioni da neo-di­ret­tore sportivo della Tudor.
Dedicare spazio a questo cinquantaseienne figlio dell’hinterland milanese, con un ampio trascorso da corridore di­lettante in Lombardia e nella vicina Piacenza, significa dare il giusto lustro a un uomo che da diesse ha lavorato con Omar Pi­scina, Orlando Maini, Ro­berto Damiani, Serge Par­sani, Mario Chiesa, Va­lerio Piva, Dmitri Ko­nychev prima co­me proprio corridore poi co­me collega. Giusto per restare agli italiani, “veri” e d’adozione. Claudio Coz­zi ha raggiunto le mas­sime categorie ciclistiche con la LPR nel 2004. Dopo un triennio alla corte di Pi­scina (di cui è grande amico) ha vissuto per intero la parabola della Katusha, compreso l’antefatto griffato Tinkoff e l’era pandemica in casa Israel, che del team russo ha acquisito nel 2020 la licenza. Tra i vari successi, ha guidato dall’ammiraglia le vittorie tra Giro d’Italia e Lombardia di Purito Ro­dri­guez e la Milano-San­remo di Alexander Kristoff. Ha condiviso tante battaglie con Pippo Pozz­ato (di cui dice: «Trop­po buono, avrebbe vinto molto di più se fosse stato più “cattivo”») ma la vittoria che lo rende più orgoglioso è una di quelle più inattese: la nona tappa del Giro 2013. Si va a Firenze sotto pioggia battente, l’onesto e leale Maxim Belkov attacca sulla discesa di Val­lombrosa e compie un’impresa solitaria di sessanta chilometri. Retroscena: Cozzi aveva det­to a Belkov di far venire la famiglia quel giorno, perché aveva buone sensazioni... Le tre stagioni in Israel sono coincise col primo blocco di promozioni-retrocessioni basato sul ran­king UCI, un sistema che secondo il tecnico nato a Rho presenta qualche discrepanza: «I conti lì si fanno su tre anni, mentre le wild card sono assegnate di anno in anno» ha affermato ai no­stri microfoni. Difficoltà ad allestire su­bito un organico pienamente all’altezza del World Tour e problemi fisici ai li­miti del surreale (costretti a rinunciare al Fiandre l’anno scorso causa covid) hanno portato la struttura di Sylvan Adams allo scivolamento da World Tour a ProTeam, ma non possono cancellare emozioni e soddisfazioni. Cozzi ha potuto lavorare con Chris Froome («Prima di tutto un grande uomo, un gran combattente») e osservare da vicino Giacomo Nizzolo («Uno dei velocisti più svegli che abbia mai visto: non fosse stato per quella brutta caduta alla Sanremo...») e diversi giovani interessanti. Il suo trio di promesse da seguire è: Corbin Strong, Mason Hollyman, Marco Frigo.
Inoltre ha stretto un legame fortissimo con Alessandro De Marchi: «Il rosso di Buja è un professionista serissimo che sa sempre tirar fuori le unghie, pure se non è al top. E per come è intelligente e diretto, sarebbe un ottimo politico. Quei due giorni in maglia rosa nel 2021? Vi posso dire che il giorno prima mi aveva confidato che ci avrebbe provato!»
Attraversando due decenni di ciclismo, Cozzi è uno dei perfetti testimoni dei numerosi cambiamenti a cui ci si è dovuti adattare. Dal ruolo del direttore sportivo («Un tempo eravamo dei tuttofare della preparazione, oggi c’è più specializzazione: ci sono i diesse e gli allenatori, e ciascun direttore ha un gruppo di lavoro più ristretto rispetto a prima») ai metodi di allenamento («La galleria del vento un tempo era roba solo per cronomen... in generale ogni aspetto tecnico è molto più dettagliato oggi, l’abbigliamento è diversificato e accessoriato») fino alle dinamiche in corsa («Il Team Sky cambiò il modo di correre, prendendo in mano la situazione da inizio gara e costringendo le altre squadre ad adeguarsi: questo, insieme alle altre evoluzioni di questo sport, ha portato a un livellamento verso l’alto, e il direttore sportivo può fare la differenza prendendo le scelte giuste nei mo­menti decisivi»).
Uomini come lui hanno anche visto la parabola discendente dei risultati italiani. La sua idea in materia è chiara: «Esordienti e Allievi di talento ci sono an­cora, ma il nostro problema è non riuscire ad attrarre gli sponsor. Di conseguenza non riusciamo né a costituire un WorldTeam italiano né a organizzare tante corse a tappe per Juniores e Un­der 23. In Francia, anche in sinergia con lo Stato, riescono a rendere più attraente il ciclismo. Da noi ci sono persone come Pozzato, uno degli organizzatori del futuro, che si stanno im­pegnando molto per mettere insieme bravi manager e realizzare bei percorsi per ricreare la favola del ciclismo. C’è da fare decisamente di più, in un Paese dove ci sono sempre meno Giova­nis­simi perché le famiglie hanno paura di mandare i figli in bici per strada...».
Si torna sempre lì, al fatidico tema sicurezza. Questo il Cozzi-pensiero: «Non basta mettere più piste ciclabili. Ce ne vogliono di migliori e di diverse tipologie: quelle per chi si sposta comunemente in bicicletta sicuramente, ma an­che alcune apposite per i ciclisti che si allenano. Ci vuole la legge sul sorpasso a un metro e mezzo: in Spagna, ad esempio, quando ospitano le squadre ci­clistiche in ritiro chiudono alcune stra­de. Ma al di là degli interventi dall’alto, devono diffondersi l’educazione stradale e il rispetto reciproco tra tutti gli utenti della strada. Come dice bene De Marchi, l’automobile è un’arma carica».
Su tali considerazioni, arriviamo a Clau­dio Cozzi oggi. In seguito a un problema di salute in autunno, che lo ha costretto a rimanere in convalescenza per oltre due mesi, ha deciso di svincolarsi dalla Israel per non costringere la squadra ad aspettarlo. Nel frattempo è stato contattato dalla Tudor di Fa­bian Cancellara e del CEO Raphael Me­yer, appena passata da Continental a ProTeam. Si tratta comunque di un passo indietro da quel World Tour in cui ha agito per diciotto anni. Ma è il progetto a convincere. Niente grandi giri naturalmente, ma gli inviti per ora non sono male: UAE Tour, Giro di Svizzera e Romandia, Strade Bianche, Tirreno-Adriatico, Milano-Sanremo, Settimana Coppi&Bartali, Giro di Si­cilia... e poi, per tornare al discorso di prima, gli sponsor più importanti: Tudor chiaramente, Assos, Sram, BMC, Boss, Mercedes. Garanzie di ambizione.
E alla base di tutto c’è il leader: Cancellara, «uno con cui è facile andare d’accordo, un fuoriclasse nei rapporti col gruppo di lavoro: ha strutturato il team come una World Tour, come un’azienda, ramificato in varie aree ciascuna col proprio responsabile, e una comunicazione interna perfetta». Per la cronaca, il capo dei direttori sportivi è Sylvain Blanquefort.
C’è ben poca Italia nell’elvetica Tudor. Nello staff, oltre a Cozzi, il massofisioterapista Paolo Gallivanone, l’osteopata Umberto Mariano e l’addetta stampa Elisa Nicoletti. Tra i corridori nessuno, né in “prima squadra” né in U23. Il diesse meneghino ha la diretta responsabilità dello svedese Jacob Ericsson, del lussemburghese Luc Wirtgen e degli svizzeri Tom Bohli, Simon Pellaud e Joel Suter. Altri elementi di esperienza del roster so­no Sebastien Reichenbach e il campione nazionale danese Alexander Kamp. Dalla categoria inferiore sono rimasti i campioni di Svizzera sia Élite che Under 23, Robin Froidevaux e Nils Brun. Tra i più giovani, c’è ad esempio il campione ceco U23 Petr Kelemen. Mix di gioventù ed esperienza, tra gli atleti come nello staff. E non solo: «Sono davvero contento, vedo che c’è il giusto mix di passione e professionalità - ha concluso Cozzi la nostra ultima intervista con lui -. Dal canto mio sono felice di poter mettere a disposizione la mia esperienza su aspetti tecnici e logistici, ma al contempo poter imparare tanto dai colleghi più giovani: come di­ceva sempre mio nonno, "quando sei maestro in qualcosa, sei già allievo in qualcos’altro”». Il maestro-allievo Claudio Cozzi ha rotto il ghiaccio con la Tudor tra Murcia e Algarve. È solo l’inizio di una nuova grande sfida: poco apparire, tanto lavorare.

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