La ripartenza di Moscon

di Giulia De Maio

L’aveva detto e l’ha fatto. Vincere e zittire tutti. Gian­ni Moscon ci è riuscito e ha portato a termine una stagione lunga e difficile a braccia alzate. Il 24enne trentino ha vinto la 72° Coppa Ago­stoni, prima corsa dopo la squalifica di cinque settimane inflittagli dal­l’UCI per il gesto - una tentata manata - verso Ge­sbert al Tour de France, e il Giro di Toscana. Al campionato del mondo di Innsbruck è stato grande protagonista e ha colto un prezioso quinto posto prima di dominare il Tour de Guangxi.
In Cina il talento del Team Sky ha conquistato la tappa regina e la classifica finale dell’ultima corsa World Tour della stagione, chiudendo con il morale alle stelle un anno in cui è stato al centro dell’attenzione, purtroppo non solo per le sue brillanti prestazioni in sella. A suon di risultati il trattore della Val di Non ha messo a tacere le tante (troppe) polemiche che lo hanno avuto come protagonista. Delle quali, dopo questa intervista, non vuole più assolutamente tornare a parlare.
Puoi andare in vacanza felice...
«Vincere fa sempre bene all’umore, concludere la stagione in questo modo mi gratifica e dà fiducia per preparare al meglio l’anno che verrà. Non ho programmato nessun viaggio particolare, nei prossimi mesi starò a casa, tranquillo, tra un ritiro e l’altro. Cercherò di dare almeno un esame nella sessione invernale di Ingegneria Gestionale, sono iscritto all’Università di Vicenza, ma chiaramente sono indietro sulla tabella di marcia visto che non riesco a frequentare le lezioni. Suonerò un po’ la mia fisarmonica e mi divertirò con gli amici. Ovviamente mi dedicherò alle mele, darò una mano nell’attività di famiglia a Livo (TN). Come dicono scherzando i miei compagni, in fondo sono un agricoltore a tempo pieno e un ciclista a tempo perso. Battute a parte, quando posso vado in campagna qualche ora, qualche mezza giornata, più che altro per sfogarmi, svagarmi un attimo, per staccare un po’ di testa. Come ho fatto anche prima del campionato italiano a cronometro...».
In questo periodo non hai pensato: mollo tutto e mi dedico alle mele?
«Sicuramente lavorare nei campi comporta meno responsabilità mediatica che fare l’atleta professionista, ma correre è il mio lavoro e mi piace farlo. Non mi è mai passato per la testa di smettere. Mi trovo bene con la squadra e finchè faccio quello che mi piace, non vedo perchè dovrei farmi abbattere. Il ciclismo in sé mi piace come quando ho iniziato, tutti i retroscena che ci so­no ad alti livelli mi piacciono ovviamente meno, ma sto imparando a conviverci. Io vado in bici perché amo questo sport, in tutti gli ambienti ci possono essere problemi o aspetti che non ci vanno a genio. Quando a 7 anni ho iniziato a pedalare su una biciclettina az­zurra con il nastro rosso magari ero più spensierato di oggi, ma è normale».
Ad aprile di un anno fa sei stato sospeso dalla tua squadra per sei settimane per aver apostrofato con insulti a sfondo razziale il corridore francese della FDJ Kévin Réza. Qualche mese dopo alla Tre Valli Varesine, Sebastien Reichenbach, anche lui della FDJ, ti ha accusato di averlo buttato per terra con premeditazione (dopo qualche mese l’Uci ha riconosciuto la sua estraneità alla vicenda, ndr). Al mondiale di Bergen sei stato squalificato per esserti attaccato all’ammiraglia per rientrare do­po una foratura. Quest’anno sei stato man­dato a casa dal Tour e sono fioccate nuove critiche nei tuoi confronti. Tutti questi episodi ti hanno “indurito”?
«Sì, sicuramente. Sono più diffidente e attento quando parlo, ma ad essere sincero sono anche più indifferente. Guar­da, ormai, faccio dire a tutti quello che pensano senza prendermela come ma­gari facevo tempo fa. Detto in parole povere, me ne frego di più. Per una ra­gione o per l’altra ci sono sempre dentro. Non voglio fare certamente la vittima, ma non voglio nemmeno passare per carnefice. Per la vicenda Reza e per quella di Reichenbach ci ho sofferto molto, ma ora ho capito che è inutile stare lì a perdere tempo per far capire le proprie ragioni. Se uno ha dei pregiudizi è inutile. È tempo perso. C’è solo da rimboccarsi le maniche e lavorare. Parlare serve a poco. Per quan­to riguarda quel che è accaduto al Tour, non ci penso più. Gesbert quel giorno nemmeno l’ho sfiorato... Tutti hanno visto il video e si sono fatti la loro opinione, non mi interessa farla cambiare a nessuno. Mi hanno buttato un sacco di m... addosso, ma io con la testa sono tornato a quando ero dilettante. Quando c’era una salita scattavo e an­davo via da solo. Ho ricominciato a ragionare in questo modo. Voglio an­dare alle gare senza paura, pensando a scattare sui denti ai rivali. Sono tornato a correre in maniera più aggressiva, fregandomene di tutto, per la serie o la va o la spacca».
Visto l’ottimo finale di stagione, pare funzioni.
«Quest’ultimo incidente di percorso l’ho preso di petto invece di subirlo e basta. Mi sono allenato come non mai e i frutti si sono visti. La Coppa Ago­sto­ni è stata una liberazione: come in­frangere un incantesimo. Ne avevo proprio bisogno, mi mancava da troppo tempo la sensazione di essere il più for­te (non tagliava per primo la linea del traguardo dal 13 agosto 2016 quando vinse una tappa e la classifica finale dell’Arctic Race, a cui seguì il tricolore a cronometro, ndr). L’ho dedicata alla mia famiglia, i miei genitori Bruno e Luisa erano a Lissone, forse hanno sofferto più di me, specie mia madre, le tensioni che ci sono state negli ultimi mesi. Di quanto accaduto non ne vo­glio più parlare, sono sfinito. Non pos­so convincere chi non ha nemmeno vo­glia di ascoltare e capire. Mi vogliono far passare per quello che non sono. Mi hano costruito addosso un’etichetta che ora non riesco più a tirarmi via, anche se penso di aver capito come si fa. Nello sport come nella vita c’è solo un modo: tanto lavoro, tanto impegno e via a tutta. Uno sportivo come me deve saper convogliare la propria rabbia agonistica solo in corsa, solo sui pedali».
Cosa ti sei portato a casa dalla Cina?
«Al di là del risultato, è stata una bella esperienza vedere un Paese nuo­vo in cui non ero mai stato e comprendere un po’ la cultura del posto. Non mi ha colpito qualcosa in particolare, è semplicemente tutto diverso. La gente sembra avere un’impostazione differente dalla nostra. Il pubblico, composto da grandi e bambini che evidentemente non sono abituati a vedere gare di ciclismo, era sorpreso e anche più coinvolto di quanto mi aspettassi. Guardandoli a bordo strada mi sono domandato: chissà cosa pensano ve­den­doci? Sembrano tutti seri, quasi “im­postati”, vanno dritti per la loro strada. A parte il tempo e il cibo, ci sia­mo adattati e divertiti, è stato bello».
Un altro mondo rispetto a Innsbruck, dove hai scelto di vivere e dove si è svolto il mondiale.
«Mi sono trasferito da pochi mesi, ho preso una casa in affitto in una stradina tranquilla, non lontana dal centro né dall’areoporto. Sono stato un anno a Mo­naco (dove vivono numerosi corridori Sky, ndr) ma non mi piaceva. Ho scelto Innsbruck perché offre un am­biente più familiare e a livello paesaggistico e di cultura è più simile a quelli in cui sono cresciuto. Diciamo che in Austria, non troppo lontano dal mio Trentino, mi sento più a casa. Per quanto riguarda la sfida iridata mi sono mancate le gambe sul pezzo più duro del muro decisivo. La squadra ha fatto un ottimo lavoro, io ho dato tutto. In cima all’Inferno (Holl, lo chiamano da quelle parti) non ci vedevo più dalla fatica. Le gambe non giravano più. Avrei voluto quasi scendere dalla bici e spingerla e forse avrei fatto prima. Pe­rò dai, non ha vinto mica Pinco Pal­li­no. Mi spiace perché avrei voluto vincere, ma ho tante stagioni davanti a me per riprovarci. Alejandro Valverde ci ha impiegato 15 anni a portarsi a casa la maglia iridata... Ho fatto il possibile per arrivare preparato, ero in grande condizione. Non ho recriminazioni. Abbiamo corso in modo ottimo, ma non tutte le ciambelle escono col bu­co».
Il CT Davide Cassani ha detto che un giorno diventerai campione del mondo.
«Eh, speriamo. Vincere è sempre difficile, partiamo in 200 e alla fine vince solo uno però, dai, a forza di arrivarci vicino, una volta o l’altra magari la ruo­ta gira e la fortuna mi sorride. Il percorso dell’anno prossimo nello Yor­k­shire non è così semplice co­me può sembrare guardando solo l’altimetria, i mondiali se non sono proprio piatti come un biliardo premiano sempre atleti di fondo e sono aperti a tante soluzioni. Non c’è mai nulla di scontato. Anche a Bergen, che doveva es­sere una questione riservata ai velocisti, alla fine per un pelo non arriviamo io e Alaphilippe. Qualcosa si riesce sem­pre a inventare. Per il 2019 voglio far bene alla Tirreno-Adria­tico, alle classiche fino alla Parigi-Roubaix e vorrei disputare il Giro d’Italia. Da ca­pitano? Non penso di essere ancora pronto. Prima di pensare alle corse a tappe di tre settimane, voglio provare a vincere una Classica. Quando ci sarò riuscito, dovrò perdere peso e mi­gliorare in salita per puntare ai grandi giri. Intanto proverò a mettermi in mo­stra nelle tappe e cercherò di imparare il più possibile dai miei compagni che sono riusciti a vestire maglie gialle, rosa e rosse. In Sky spesso devo lavorare per i capitani, ma non mi pesa perché so dove posso arrivare. Avete visto Thomas? È cresciuto fino a quando è arrivato a giocarsi il Tour per vincere. Non dico che posso arrivare a tanto anche io, ma il percorso che io e la squadra abbiamo in mente per il mio futuro punta in quella direzione».
Quanto sei cresciuto da quando sei passato professionista?
«Tantissimo. Rispetto a quando ero dilettante è tutto più grande, le pressioni come le soddisfazioni. Anche a livello atletico, rispetto a tre anni fa, sono più forte e maturo: i numeri sono uguali a quando sono passato (1.80 per 69 kg) ma sono un atleta più competitivo. Questo finale di stagione mi ha dato fiducia, sono stato due mesi senza correre e tutto quello che ho raccolto l’ho costruito gra­zie all’allenamento. Ho avuto conferme e morale per affrontare la prossima stagione con la cattiveria giusta. Io faccio quello che mi piace, mi alleno e vado in bici finchè non mi stufo e mi pa­gano pure. Gli altri facciano ciò che vogliono. Ap­pena rientrato a casa dal Tour avrei voluto buttare la bici giù da un dirupo, poi mi sono detto che c’era una stagione da salvare. Non voglio più dare appigli a nessuno. Chi mi vuole bene, dopo tutti questi episodi me ne vuole ancora di più, chi mi voleva male ha avuto l’occasione per voltarmi le spal­le. Non si può piacere a tutti. A chi mi supporta e a chi mi è stato vicino dico grazie e faccio una promessa: darò il massimo per regalarvi presto qualche bella soddisfazione».

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