Rapporti&Relazioni
Il più umano degli sport
di Gian Paolo Ormezzano

Devo mettere avanti il caso personale: parlare, anche ufficialmente, intendo dire con un microfono, da un podio o qualcosa di simile, a quelli del ciclismo è infinitamente più facile e gratificante che parlare, mettiamo, a quelli del calcio, e anche di qualsiasi altro sport. Penso che molto semplicemente sia questione di amore.
Baso il mio dire su una lunga esperienza personale di conferenziere, dibattitore, tavolarotondista, moderatore, relatore trombone eccetera. Nonostante la mia forte pronuncia piemontese, pare che quello che riesco a dire di solito funzioni. Il fatto è che vado verso il mezzo secolo di giornalismo attivo, dunque di raccolta di uomini, cose, eventi: e siccome la voce non è ancora roca e la pazienza degli uditori è infinita, riesco a funzionare, cercando di limitare al massimo le escursioni in quel futuro prezioso che ognuno di noi crede di possedere e che ai giovani sa subito di stantio.
Ho parlato di amore. Credo di conoscere un bel po’ di giornalismo sportivo e posso dire che nel ciclismo il giornalista ama il suo sport. Nel calcio, l’ho già scritto ma giova riscriverlo, ama una squadra, casomai un campione. Nel ciclismo, se anche esiste il tifo particolare per questo o per quel corridore, il giornalista ama tutti, non vuole che le cose vadano male a nessuno.
Amore e non fanatismo, come accade invece ai giornalisti - un esempio, il più intenso - di atletica leggera. O a quelli di automobilismo. Per non dire degli affiliati a cosche più o meno segrete, come quelli patiti di alpinismo, di basket, di volley, di nuoto: penso davvero che certe azioni per certi sport vengano compiute a livello di setta, sia pure con purezza, buona fede, massima devozione.

Nel ciclismo è proprio solo amore. E amore facile, semplice, anche se non grossolano. Non amore malsano, e neppure amore pastorale, stilnovistico. No, proprio amore-amore, per fare figli, per tramandare le specie, cioè per produrre emozioni, e pazienza se molte volte sono anche commozioni. Amore magari un po’ complessato, quando si pensa che il ciclismo patisca vessazioni da parte di altri sport più da vetrina, e che queste vessazioni siano un colossale atto di pressapochismo ed anche di ingiustizia per non dire di cospirazione. Magari amore un po’ patetico. Magari un po’ troppo affidato alle dichiarazioni altrui, nel senso che si crede profondamente a quello che non si riesce a vedere neppure superficialmente, cioè si crede, mettiamo, alla narrazione di questa o quella fase della corsa, e di essa ci si fa testimoni e referenti, amando e omaggiando i protagonisti.

Però è proprio amore, e a questo punto scomodo insieme Indurain e Foscolo. A marzo quelli di Arvier, Valle d’Aosta, il paesino da dove Maurice Garin partì per andare in Francia a fare lo spazzacamino e casomai anche il ciclista, e là vinse nel 1903 il primo Tour de France, quelli dunque di Arvier mi hanno riaffidato la gestione oratoria del Premio - appunto - Garin, destinato ad un eroe del Tour ed assegnato a Indurain 1995. In pochi minuti si è stabilito tra me tapino e il campionissimo spagnolo, tra lui e il pubblico, lasciatemi dire anche tra me e il pubblico, un rapporto che è spiegabile soltanto con l’amore. C’erano gli interpreti, per una serata in italiano, francese e spagnolo, ma non sono serviti a molto. Si è presto instaurata una koiné dei sentimenti, dei gesti, dei pensieri, delle parole. Parlavamo tutti la stessa lingua, se ci fosse stato da votare avremmo scelto tutti lo stesso partito. Indurain capiva lo spirito delle domande del pubblico valdostano, che capiva benissimo lo spirito delle risposte del ciclista navarro. Io non avevo difficoltà nel gestire un dialogo che sembrava il prosieguo e il rafforzamento di tante cose già dette, già partecipate, già sperimentate.
Ho assistito e ancora più spesso partecipato a molte serate teoricamente simili, con gente di altri sport, ed alcune le ho proprio gestite, come quella di Arvier. Sempre c’è stato qualcosa di finto (non direi neppure di falso) fra me e il campione di calcio e non solo di calcio, fra lui e la gente, persino fra la gente e me. Una recita, ecco, con recitazione generale scadente perché non sentita.

Ho detto che scomodavo Foscolo. Il poeta scrisse, nei Sepolcri, un verso che spiega molte cose di questi rapporti naturali, fisiologici, automatici, serenissimi: «Celeste è questa corrispondenza di amorosi sensi, celeste dote negli umani». Non che quelli di altri sport siano extraumani, o subumani, o superumani, o peggio ancora disumani. Però l’umanità del ciclismo è la più umana che possa esistere, e permettetemi il gioco di parole, e accontentatevi del “perché sì”. Avevo davanti a me il padre di Diego Pellegrini e la moglie di Fabio Casartelli, ho ricordato i due ragazzi morti di sport, di ciclismo, non dimenticherò mai i singhiozzi di quel padre, il silenzio di cera di quella moglie. Però posso, debbo dire che il loro dolore aveva l’ambientazione più giusta e onesta, fornita da noi, dalla nostra umanità di innamorati del ciclismo, uno sport che davvero fa più buoni, fa meglio fratelli. E non è vero che ognuno lo pensa del suo sport che ama.
Provate a chiederlo ad uno del calcio.

Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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