Ah, quel ciclismo che non sa odiare
di Gian Paolo Ormezzano
Possibile che non ti venga in mente una favola di Natale sui ciclisti, sul ciclismo, per il ciclismo? Possibile che non ti ispiri neppure l’anno di Marco Pantani vincitore del Giro d’Italia e del Tour de France? Ma cosa vuoi ancora dalla vita per essere felice e contento, per fantasticare e godere?
Me lo chiedono, me lo chiedo. Mi avessero detto un anno fa che nel 1998 si sarebbe vinto con uno dei nostri le due massime prove a tappe, statisticamente evocando e imitando addirittura Fausto Coppi, mi sarei impegnato per una enorme produzione di saghe, sagre e leggende e miti: in prima persona singolare e per l’attività di altri più bravi di me.
Invece siamo qui a fare gli snob, perché non sappiamo fare i popolari, i popolareschi. Siamo qui con quasi il pudore di queste grosse vittorie.
Ci hanno fregati, ci siamo fregati.
Abbiamo buttato via un’annata straordinaria. Nel senso almeno che ce la siamo sognata per anni, per quasi mezzo secolo, e adesso che è arrivata siamo rimasti imbambolati a guardarla, a guardarci quanto siamo belli e fermi. Il Tour di Pantani è stato da noi accettato come il Tour del doping, della polizia addosso ai corridori. Pensate ad un Giro d’Italia visitato nello stesso modo dalle forze dell’ordine nostrane e vinto da un francese: a Parigi sarebbero riusciti a parlare assai più del loro corridore che della polizia, e comunque della polizia per dirle di non fare ombra al loro corridore. Proprio al Tour, noi ad un certo punto sembravamo quasi chiedere scusa del fatto che Pantani, facendo del ciclismo anzi del grande ciclismo, ostacolasse in un certo modo il trionfale cammino della giustizia extrasportiva.
Pantani ha vinto in Francia una corsa cominciata quando già la Nazionale italiana di calcio aveva toppato al Mondiale. Poteva, Pantani, venire contrapposto ai calciatori azzurri, godere anche della insipienza, della incapacità, della scarsezza dei nostri divi del pallone, messi presto fuori in una delle più facili, povere edizioni della Coppa del Mondo. Invece niente, e ad un certo punto sembrava che il top per Pantani e per i pantanisti dovesse consistere nel gemellaggio fra il corridore e la sua squadra di calcio preferita.
Siamo troppo poveri, e dunque troppo signori. Siamo troppo onesti, e dunque troppo pudichi. Non siamo riusciti a far valere quanto merita il nostro pur grande, pur grandissimo ciclismo. Fra poco nei consueti referendum sportivi di fine anno vedrete che troveranno posto in graduatoria, più o meno all’altezza di Pantani, i tennisti azzurri della facile Coppa Davis, qualche Del Piero di turno, magari un Fisichella che è arrivato a un paio di podii della Formula 1. Vedrete, vedrete.
Persino trattando il doping siamo stati quasi rammaricati nello scoprire che furoreggia anche nel calcio, anche nello sci. Eravamo fieri della nostra posizione di colpevoli quasi unici, di capri espiatori, di parafulmini. Non ci siamo scagliati contro il doping finalmente riconosciuto nel calcio, e questo dopo anni e anni in cui quelli del calcio si sono scagliati contro il doping nel ciclismo. Ci siamo scoperti quasi quasi dispiaciuti del fatto che il ciclismo non sia più solo a frequentare, a sperimentare il flagello.
Siamo matti? Masochisti? Cretini? Sfigati cronici? Vessati fissi e anzi vessati fessi? Un po’ di tutto questo. Siamo ciclofili, siamo tifosi impegnati nel più onesto e avvolgente, oltre che coinvolgente, degli psicodrammi. Amando il ciclismo, tifando il ciclismo, si assumono del ciclismo anche l’umiltà, il senso cosmico di espiazione, il rispetto sommo dello sport quale che esso sia, l’amore comunque per lo sport quando significa sudore, cioè abbastanza spesso. Il tifoso ciclista è il più sportivo che ci sia, ama il ciclismo ma vuole bene a tutto lo sport. Non è assolutamente contento quando altri sport si trovano a dover soffrire gli stessi problemi del ciclismo. Non pensa mai al suo sport preferito in alternativa con altri sport, e men che mai in competizione. E così inventare un Natale speciale per il ciclismo, anzi per lo strepitoso ciclismo italiano del 1998, per Marco Pantani & Soci, ci appare come glorificare una entità che, in un modo o nell’altro, finisce per togliere qualcosa ad altre entità del suo stesso mondo, il mondo dello sport. Parlare del nostro Natale festoso ci pare quasi come un affronto a chi un tale tipo di Natale non può permetterselo. Pensiamo ai ferraristi: come possiamo osare di far festa quando loro sono così tristi? Pensiamo al Natale pieno di problemi di Ronaldo, e forse degli interisti tutti.
Il ciclismo non sarà mai capace di contrapporsi al resto dello sport, anche per un semplice gioco interno di classifica presso le genti. Il ciclismo sarà sempre impegnato a non dare disturbo, a non farsi gaglioffo. I migliori ciclisti saranno sempre in soggezione davanti a calciatori anche mediocri. Il tifoso del ciclismo avrà sempre paura che al suo idolo venga rinfacciata l’incapacità di guadagnare cinque miliardi all’anno, come ormai riesce anche ad un calciatore di mezza tacca.
Il ciclismo è umile, modesto, semplice, onesto, fesso. Il ciclismo ha imparato e da tempo non solo ad essere contento di ciò che ha, ma anche a non montarsi la testa se ogni tanto il grande convento dello sport gli passa qualcosa di più del solito. Il ciclismo è arcaico, è fuori del tempo. Ma trattandosi di tempo schifoso, non è poi un brutto affare.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista di “Tuttosport”
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