Scripta manent
Stessa scuola, stessi amori, stesso ciclismo
di Gian Paolo Porreca

Sono passati gli anni, giri su giri, pagine dopo pagine.Ed è incredibile, semmai, come la distanza dalle cose, dalle corse, dagli eventi, dalle persone care al limite, si cominci a misurarle in decenni. Per me, del 1950, dall’altro ieri della mia storia sono passati almeno trent’anni.
Ed invece ieri, 16 settembre 1999, ho provato l’emozione dell’accompagnare mia figlia Benedetta al suo primo giorno di scuola superiore: già, al fatidico IV ginnasio, quel buon nome antico - ginnasio - che profuma di una remota saggezza.Guardate quella ex bambina che entrava, e si perdeva, nella frotta di ragazzi non ancora uomini e di ragazze appena appena donne, nello stesso Liceo della mia giovinezza: il glorioso Umberto I, un tempo fucina - si diceva così? - delle migliori intelligenze della città. Ghirelli, Barendson, La Capria, Compagna...

Benedetta, la sua chioma bionda, dileguava fra il biondo degli altri, si iscriveva ad un’altra età. Dietro un portone di legno pesante. Ed io ripensavo innanzitutto ai suoi riccioli biondi di bambina, quando mi accompagnava a vedere le corse di bicicletta, quelle volte rare e speciali che il ciclismo dei grandi onorava le nostre zone. E ricordavo come se ne stava a cavalcioni sulle spalle, una gonnellina rosa, al traguardo di Ravello, in una Tirreno-Adriatico sospesa fra Fondriest e Rominger: e uno spilungone impertinente, biondo come lei, EricVanderaerden, che le schiacciava sulla testa il suo berrettino della «Buckler».Un cappellino bianco e blé, alla belga, certamente: molto prima del copricapo alla moda secondo Jovanotti.
E poi il suo sguardo impaurito sulle numerose sbucciature e i pantaloncini sdruciti di due atleti caduti: sangue e mercurocromo sui glutei di Breukink e di Fondriest. (Ma sono ben guarite quelle ferite che ti facevano tanta paura allora, mia piccola Benni... Sono le nostre, quelle dell’età che non perdona, a non perdonare, a non guarire).

Il 16 settembre 1999, sotto la scuola della mia giovinezza, ad accompagnare la mia prima figlia, mi veniva così spontaneo ritornare a trenta anni esatti indietro.
Al 1969, quando sotto lo scalone dello stesso liceo aspettavo fremente l’uscita della V/A e di una ragazza bruna che si chiamava Rosanna ed aveva i calzettoni bianchi e i mocassini blé. E ingannavo il tempo, imparando a memoria le pagine di ciclismo della Gazzetta: Gimondi Dancelli Delisle Motta, un improbabile campione del mondo di nome Ottembros, quell’anno. E le notizie sul nostro prediletto, un olandese bizzarro ed ombroso, di nome Karstens: quel velocista, o meglio quel «finisseur» che suona più intrigante, che aveva scelto di fare il ciclista contro il volere del padre, ricco notaio di Leida, cominciando a correre la domenica proprio perché detestava di andare a messa con i genitori...

Trenta anni fa, sulle stesse aiuole, i miei passi, un batticuore di segno diverso certo, ma di pari intensità. Allora, da ragazzo, Rosanna, il primo amore, la prima fuga, il primo o forse il secondo bacio, le canzoni da dividere a metà: Amica mia, chi la ricorda? Ieri, da uomo maturo, Benedetta, una figlia che è cresciuta, sorridere del suo Mambo number 5, una figlia che lascia la mano: ma non la lascia.
Trent’anni fa, era l’autunno del ’69 - ma che c’entra l’autunno, in quella interminabile estate? - parlavo a Rosanna del mio cuore spalancato su di lei come sul ciclismo, di quel mondo che amavo tanto, di quello che scrivevo sui fogli Extra strong e mandavo a leggere a Raschi e a Negri, della musica dei nomi stranieri e dei nomi inventati. Parlavo della suggestione letteraria, in particolare, di quel Karstens, che mi creavo come alter-ego, quale espressione della più indomita fantasia.Bella, lancinante, come quel nostro piccolo amore.
EKarstens l’avrebbe sublimata, quella storia napoletana di cui ignorava l’esistenza, vincendo proprio il Giro di Lombardia di fine calendario: il 10, o forse l’11 ottobre del ’69.

Mi sarebbe sembrato allora, insieme a lui, di aver vinto anch’io, quel sabato pomeriggio, dopo la scuola ed un ultimo bacio di velluto.I nomi di quel drappello in fuga, compagni dianco prediletti, Bitossi Poppe Vandenbossche Monserè, imparavano l’alfabeto greco o la declinazione dei sentimenti insieme a noi. Avevo Rosanna, già: proprio come Karstens il «Lombardia»...
Fino all’antidoping, purtroppo: che all’olandese avrebbe strappato la classica delle foglie morte. E per solidarietà - giusto così, per noi campioni di un giorno? - una settimana dopo io avrei perso la ragazzina dai calzettoni bianchi e i mocassini blè: più blè più ble, nella memoria.
Trenta anni dopo o trenta anni fa, chissà. E ci manca il coraggio, o la paura, in attesa dell’orario definitivo, di augurarci che esista ancora, sotto la stessa scuola, un ragazzo che ad una ragazzina semmai di nome Benedetta sappia rivolgere il suo amore.Dedicandole pure il suo amore per il ciclismo.

Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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