Scripta manent
La nostra storia sconfitta
di Gian Paolo Porreca

L’abbiamo rivista ieri, la prima domenica del mese di gennaio che strappava la primavera al calendario, la nostra bicicletta da corsa. Giù in garage. I raggi, ritualmente, corrosi dalla solita tenace ruggine del tempo. Stavolta, l’inverno è stato ancora più lungo, pure giù da noi. Ed ancora più scontento.
Quale antiossidante, quale Ferox passeremo domani su quei raggi che perforavano la luce? Quale maglia ci andremo a ricamare addosso, per le strade, per il gran cielo della nostra città di mare?
Quale ciclismo - noi che abitiamo la stessa età della fantasia - andremo a pedalare? La maglia della Ti-Raleigh olandese che catturò un perduto amore?
O la insegna immacolata di leader de La Tre Giorni de La Panne? O quella inedita della Mapei che ci ha regalato, per una ipotesi di stima molto remota dalla complicità, una casa farmaceutica? Quale visione indosseremo, di quale classica, di quale ciclismo?
E per quale ciclismo?

In garage, sa di rassegnata la nostra bici. E fuori di esso, sa ancor più di rassegnato il nostro animo. Sì, scusateci, voi lettori che volete più storia, abbiamo detto proprio così: «animo».
Se il ciclismo, più di ogni altro sport, resta quella vocazione che ambisce al volo, a tracciare di un’orma di seta la terra mortale, quest’anno noi non vi saremo, lì con voi.
Se c’era un piccolo paradiso di virtù, una pluasibile utopia di serenità, in questo sport che si corrobora di un sorriso innocente per essere tale, oggi non siamo lì con voi.

Volevamo giocare agli scatti in salita, alle progressioni contro il vento su via Caracciolo - ma quanti anni abbiamo? -, volevamo sprintare ancora contro Leman e Cipollini - già, non sapevate che correvano insieme? - chiamandoci col nome di battaglia di Karstens.
Volevamo chiamarci ancora - nell’affanno di un batticuore - come quei grandi campioni che non avranno mai la nostra stessa età. Loro, come i Troiani contro gli Achei, resteranno per sempre giovani. Profumeranno di una ferma eternità.
Oggi no - questa domenica 17 gennaio - quando i quotidiani ci informano del Paradiso Terrestre spalancato per Virenque in Italia, così come per un Tyson di morsi e rimorsi oltre l’Oceano, intuiamo atrocemente che la nostra Età della Ruota sia stata sempre un’illusione, ostaggio di una verità famelica che muove - no, non commuove - il mondo.
Scusateci, ma stavolta ci vogliono le Grandi Parole - Slealtà, Disonestà, Complicità -, quelle che finiscono con la «a» accentata, per esprimere la nostra distanza dal mito del ciclismo che si rifà come ogni primavera. Ma che quest’anno si rifà - colpevolmente - come se niente fosse stato. Già, come se a luglio, la vicenda Festina-doping al Tour non avesse diviso i Buoni dai Cattivi, o almeno espresso questa siffatta inalienabile definitiva istanza di chiarezza, per poter credere ancora ad un ordine di arrivo.

Virenque in Italia, quell’atleta dalla bandiera elvetica di impunità cucita sulla licenza, benvenuto in Paradiso, festeggiato da una stampa rosa - no, non ho detto «rosea» - come si trattasse di un Napoleone da adottare! Ovvero, un indagato di reato per doping in attesa di giudizio per le competenti autorità francesi, che trova qui da noi una sistemazione con tutti i comfort sul nostro budget di contribuenti ed appassionati. Altro che sintonia con le leggi francesi, altro che lotta europea comunitaria contro il doping... Alzi la mano chi sentiva l’esigenza di un Virenque mercenario al di qua delle Alpi. Ma assistere ad una simile genuflessione di fronte ad un dio chiamato sponsor, senza ribadire una pur minima Censura, una pur minima riserva, viene a squalificare di fatto tutto quanto è stato nobilmente scritto - semmai sulle stesse colonne - sulla vergogna del Tour, sul suo moccioso protagonismo dei giorni recenti, per non rammentare il cattivo gusto del gridar vittoria nel giorno della morte di Casartelli!
No, certo Virenque non è Ocalan. E la giustizia internazionale ha ben altri Sacco e Vanzetti da riabilitare. Ma per amor del cielo, e dello sport, non parlateci più sulle vostre colonne di lotta al doping. O di ciclismo pulito. Abbiate questo pudore.
Noi, con i raggi arrugginiti del nostro sole, ed un’amarezza profonda, ce ne andremo raminghi. Chiamateci pure Manzaneque, come quell’hidalgo romantico di un’altra stagione. Ma non seguiteci oltre. Noi ci siamo persi. La nostra - purtroppo - è solo una storia sconfitta. Non è più una storia rosa.

Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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