Gira e rigira, col Giro e con i pensieri, forse abbiamo capito cosa manca al ciclismo per fare concorrenza al calcio sul piano della manfrina, della menata di torrone, della presa per il naso, insomma della popolarità. Manca lo spogliatoio.
Si pensi a come e quanto è stato mitizzato lo spogliatoio nel gioco del pallone. Un posto sacro e profano insieme, il posto dei rituali più spinti e delle preghiere più intense, delle litanie e delle bestemmie, delle tattiche raffinate e dei semplicismi goliardici, degli abbracci e degli sputi, degli abbracci e delle panche sfasciate sulle teste. Qualcuno si è spinto sino a dire che le partite si vincono in realtà nello spogliatoio: anche se non risulta che dallo spogliatoio sia mai stato segnato un gol.
Si può pagare miliardi all’anno una persona, anche se non esperta direttamente di calcio, per come e quanto sa “fare spogliatoio”: per esempio Velasco è stato preso dall’Inter anche se non soprattutto per “fare spogliatoio”. Ci si può battere sul mercato per un calciatore che non sa fare lo stop, ma che sa “fare spogliatoio”. Nello spogliatoio certe volte manco il presidente, il “padrone” può entrare. Lo spogliatoio è protetto da una bunkerizzazione come nessun posto sacro nel mondo. È più facile che un cammello eccetera eccetera, che non che un giornalista entri in un spogliatoio.
Lo spogliatoio è posto di teatro, recitato da pochi per se stessi esplicitamente, implicitamente per le moltitudini. Un teatro segreto con addosso un esercito di indiscrezioni, di supposizioni. Il pissi-pissi bao-bao dello spogliatoio può fare la fortuna di un giornale, di una radioteletrasmissione.
Il ciclismo non ha spogliatoio. Potrebbe averlo? Secondo noi dovrebbe averlo, per il successo pieno presso gli italioti, ma non potrebbe averlo: a meno di smettere di essere ciclismo. Lo spogliatoio... bluff, mistero, congiura, cosca, magia, coacervo, convento. È anche pratica di doping, e copertura di questa pratica. Pensiamo sia nata in uno spogliatoio calcistico la trovata forse massima dell’antidoping, quella che oscura la peretta di gomma con la quale i ciclisti hanno spesso truffato i sanitari, versando nelle provette l’urina pulita preparata prima. L’ultimo grido, calcistico, dice di contenitori di urina piazzati nel condotto rettale, e forati al momento giusto con un piccolo punteruolo, anche soltanto con uno stuzzicadenti: nessun problema di provetta che comunque può costituire un corpo del reato.
Il ciclismo non ha spogliatoio, ha al massimo la riunione mattutina in occasione della colazione. Troppo poco per la manfrina, il pecoreccio, la stregoneria. Senza spogliatoio la gente non indossa la grande attenzione, non veste il superfanatismo, l’iperpettegolezzo, non si veste della intelligenza, della capacità critica. Lo spogliatoio, visitato anche soltanto con la fantasia, è necessario per le leggende, le illazioni, le vaste operazioni di filosofia comparata, di matematica cinese, di psicologia superiore che i tifosi del calcio sono chiamati a fare: anche per dimenticare certe porcherie del loro sport, e persino certe pochezze del gioco del calcio in se stesso.
Lo spogliatoio, con tutte le leggende e falsità che lo riempiono, stando alla fantasia popolare, è la chiesa ideale della cosiddetta religione del calcio. Il ciclismo non l’ha, non l’avrà mai. Per la semplice ragione che il ciclismo è una religione vera, mentre il calcio è una setta, una confraternita, una eresia di massa.
hhhhhh
Davide Cassani certe volte forse si rammarica di stare in Italia, dove un persistente corporativismo gli impedisce di essere giornalista in pieno, nonostante che sia ormai il migliore telecronista del ciclismo. All’estero le cose sono più semplici, in linea di massima basta dimostrare di saper leggere e scrivere e si può fare lavoro giornalistico.
Secondo noi il merito massimo, e non riconosciuto, di Cassani è quello di essere riuscito a parlare di ciclismo pur avendo la “erre” alla Gianni Agnelli. Se dieci anni fa ci avessero detto che uno poteva fare telecronache ciclistiche con questa “erre” affettata, aristocratica, saremmo scoppiati a ridere.
Ma l’Italia è proprio terra museale, anche per lo sport. I suoi due sport più popolari, calcio e ciclismo, hanno avuto in tutto, dall’avvento della televisione, tre soli telecronisti: De Zan per le biciclette, Martellini e poi Pizzul per il pallone (chi c’era prima veniva dalla radio, doveva tutto alla radio). E parliamo di mezzo secolo. Sono tre bravissimi, sia chiaro, monumentalmente bravi. Resta però il fatto che, con tutti i cambiamenti che ha avuto lo sport, tre sole persone per mezzo secolo di grandi eventi dicono di un grande immobilismo, o di una bravata sovrumana, che stoppa le vocazioni già nella culla.
hhhhhh
Vedere Paolo Brosio soffrire in bici, nel suo finto Giro per la Rai, sia pure a pagamento, ci ha dato l’idea del contrappasso: troppo insistente, alla radio, lui e la sua micidiale mamma nell’invitare gli automobilisti a scegliere quella certa benzina, per sfuggire alla condanna di pedalare. Finito il Giro abbiamo aspettato - invano - che il tremendo Paolo rimanesse appiccicato alla bici, per scherzo/vendetta del demonio, e portando sul tubo del telaio la mamma infernale.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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