Una Sanremo tra amarcord e nostalgia
di Gian Paolo Ormezzano
Diceva Marcello Marchesi che si capisce che è primavera quando viene il momento di cambiare l’olio nel motore dell’auto. Marchesi era famoso negli anni Sessanta per una trasmissione televisiva di grosso successo, «Il signore di mezza età», anche se lui era soprattutto un quasi poeta, uno sceneggiatore di film, un inventore di slogan pubblicitari, e tante altre belle cose (fra l’altro per il tramite di Leo Chiosso, il paroliere di Fred Buscaglione, quasi poeta anche lui, era pure un amico di chi scrive queste righe).
A quei tempi noi del ciclismo dicevamo, in parallelo inconscio con Marchesi, che era primavera perché si correva la Milano-Sanremo, programmata il 19 marzo, festività di... San Giuseppe e penultimo giorno d’inverno o negli immediati dintorni del calendario. La galleria del Turchino, alla fine della strada statale (niente autostrada, e d’altronde per i pedalatori l’autostrada non esiste neppure adesso), era lo spartiacque fra le nebbie padane e il sole rivierasco, secondo un copione dell’immaginario, che se ne infischiava della realtà... meteorologica. Anche se il sole non c’era, in assenza di televisione gli inviati speciali lo facevano rilucere per iscritto, a galleria appena finita. I corridori piombavano su Voltri «come falchi», e nel sobborgo di Genova l’ultima curva della discesa li immetteva sulla via Aurelia. Lì era appostato un fotografo celebre, amato da tutti, Gino Bertazzini, il quale scattava una serie di immagini di tanti corridori, che solitamente si presentavano sgranati, uno alla volta. I rullini venivano portati a Torino, alla redazione di Tuttosport, da un motociclista che, arrivato con il suo principale, rimontava la strada della corsa (Bertazzini lasciava la moto a lui e saliva sull’auto del quotidiano sportivo torinese). Se non c’erano grossi sconquassi, uno dei corridori - le foto erano comunque molte, e non uno dei big veniva trascurato - vinceva la corsa, e la sua foto veniva spacciata per telefoto e pubblicata con la dicitura: la grinta di Tizio Taldeitali nel suo riuscito assalto al traguardo di Sanremo.
Era una specie di rito. Una volta chiesi a Bertazzini di portarmi sulla sua moto fino a Sanremo, in cambio feci trovare al suo compagno di motocicletta un’auto del giornale per portare i rullini a Torino. Lui accettò e si trattò di una grossa esperienza, pur se quello fu in senso strettamente lustrale un mio battesimo al reportage davvero in mezzo ai corridori. Perché stare subito dietro al plotone della Sanremo significa essere irrorato da una nube, per fortuna quasi atomizzata dalla velocità, di pipì: duecento persone che bevono molto ed hanno freddo significano tanta pipì, ovviamente in corsa, e praticamente senza soluzione di continuità nell’emissione del liquido.
Lunga premessa non tanto per dire quanto è cambiato adesso il giornalismo al seguito (ed anche è cambiata la pipì, per via del doping), ma per cercar di chiarire se seguire fisicamente una corsa significhi effettivamente fare un reportage migliore di quello fatto coprendo il percorso in auto davanti ai corridori, per una presa d’atto dei luoghi attraversati, delle strade affrontate, e poi sistemandosi per tempo davanti al video che ti dà tutto delle fasi finali. Mi sembra che il neogiornalismo ciclistico eviti il quesito, per paura di far retrocedere la tribù degli inviati al seguito ad una tribù di inviati davanti al televisore. Paura assurda, secondo me, per la semplice ragione che non c’è altro da fare. Ricordo - non è la prima volta che lo faccio, ma non importa - quando pubblicai un articoletto incorniciato, carattere neretto su una colonna, con il titolo «Mamma tivù - dacci di più». Era l’indomani della prima Milano-Sanremo con telecamere al seguito, colleghi illustri mi rimproverarono, accusandomi di propiziare la disoccupazione della categoria, mangiata dal nuovo mostro dell’informazione. Adesso siamo già nel postmoderno.
Ma allora, la risposta al quesito? Ne ho una, che come tutte le risposte importanti, solenni, non taglia nessuna testa a nessun toro. Diciamo che è una risposta politica.
Seguire la corsa significa avere elementi per un reportage migliore di chi sta davanti al video, a due condizioni. Condizione facile: riuscire comunque, con una bella accelerazione, e ovviamente senza perdere tempo per cambiarsi d’abito ed eliminare così almeno un po’ dell’odore in più (l’ideale sarebbe poter fare anche una doccia). Condizione difficile: avere un giornale che ti pubblica quella sorta di reportage. Do per postulato che il giornalista in questione sia effettivamente in grado di scrivere qualcosa di speciale sulla sua esperienza, favorito anche dalla sollecitazione e poi dall’impatto della novità, o almeno del revival. Ma il problema è se ad un giornale interessa ancora un reportage di questo tipo, con il rischio doppio di scrivere cose che anche gli altri giornalisti hanno visto, e meglio, in televisione, e di scrivere cose che nessuno ha visto in televisione, e che quindi sono come non avvenute.
Mi rendo conto che, con un amarcord povero, che per di più sa di pipì, ho sollevato criminalmente e infantilmente un problema che, a seconda dei punti di vista, può apparire bischero, cosmico, accademico, poetico, inutile (possibile anche appiccicare al problema stesso due o più di questi aggettivi, e di inventargliene altri). Probabile che a spingermi a questa iniziativa sia anche una mia nostalgia, magari più generica nei riguardi del tempo che passa che specifica nei riguardi di quella specialissima Milano-Sanremo. Probabile anche che l’ondata di indifferenza al quesito superi l’ondicella dell’interesse. Fosse ancora vivo Marcello Marchesi, ne parlerei con lui.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista
de “La Stampa”
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