Rapporti&Relazioni
... noi che con il ciclismo facciamo l’amore...
di Gian Paolo Ormezzano

Il Novecento è cominciato con la bicicletta criminalizzata come strumento per effettuare furti, rapine, scippi e poi fuggire comodamente, senza nessuna possibilità di inseguimento da parte di persone che al massimo potevano contare sull’aiuto di un cavallo. Il Duemila comincia con la bicicletta criminalizzata come strumento sportivo che porta chi lo usa a doparsi per ottenere migliori risultati agonistici.
Quale la criminalizzazione maggiore? decida ognuno come gli pare, resta il fatto che il ciclismo patisce criminalizzazioni periodiche molto, come dire? esclusive, operanti come vaccini ed anche come collaudi: nel senso che il ciclismo deve produrre in continuazione anticorpi e che il ciclismo è continuamente su un banco di prova. Altri sport, altre entità di vita, si sarebbero arrabbiati, si sarebbero arresi. Il ciclismo non si arrabbia, e non si arrende. Adesso ha da fare i conti con un’apocalisse particolare, di fine millennio: quella che gli predice la fine prossima ventura di fronte all’ennesimo assolto della motorizzazione, prossima ormai a prendere possesso di tutti gli spazi disponibili per la circolazione. Continua a non arrabbiarsi, a non arrendersi.

Strano tenero sport, il ciclismo. Dà l’idea che se tutte le cose gli andassero bene, se si dissolvessero le nebbie del doping, se il calcio sprofondasse nel gorgo da esso stesso creato, se la gente maledicesse tutte le auto e ognuno maledicesse anche la sua, restituendo le strade a ciclisti e cavalieri e pedoni, si inventerebbe qualche guaio, attirerebbe qualche fulmine, si inoculerebbe qualche morbo, pur di essere fedele alla sua sofferenza cronica.

Salutiamo il nuovo anno, salutiamo il Duemila (non il nuovo secolo, che comincerà con il primo giorno di gennaio del 2001) con un omaggio alla vocazione di soffrire del ciclismo, e con la domanda su quale accusa dovrà affrontare nel secondo secolo del nuovo millennio: quando, è supercerto, il ciclismo dovrà affrontare un’ennesima condanna epocale.


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Pensieraccio-pensierone: se ci avessero detto, all’inizio del 1999, che il Duemila sarebbe cominciato con pezzi di Pantani, frammenti di Bartoli, scampoli di Luperini, avremmo deciso che questa sarebbe stata la fine del nostro ciclismo. Invece siamo ancora qui, ci sono le prime gare, si va verso la Sanremo, si fanno esercizi di calligrafia per prescrivere. Nel senso di scrivere prima, il Giro e il Tour. E sono passati quarant’anni da che Coppi è morto, quarant’anni da che si disse che con Fausto finiva il ciclismo.


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In uno degli incubi di fine millennio mi è venuto da pensare a cosa sarebbe nel ciclismo il Processo di Biscardi. Nel ciclismo che pure ha inventato, con il Processo di Zavoli, l’applicazione del mezzo televisivo alla vicenda agonistica appena conclusa.
Il Processo di Biscardi, cioè una trasmissione di massacro, dove ognuno deve, per copione, massacrare l’educazione, la logica, spesso anche la lingua italiana. Dove si cerca lo scandalo e se non c’è lo si inventa, lo si crea e poi lo si gonfia con l’uso di ogni lente d’ingrandimento.
Cosa accadrebbe nel ciclismo? Ma la domanda per fortuna è sbagliata. La domanda giusta è questa: sarebbe possibile nel ciclismo una tale carnevalata? E la risposta è, per fortuna, un bel “no”, un “no” enorme.
Mi viene in mente la penultima giornata del Giro d’Italia 1999, quando esplose il caso Pantani. Penso a come eravamo autenticamente tristi in quell’auto della Rai, del Processo alla tappa: Claudio Ferretti, Gianni Ippoliti ed io. Contagiammo anche l’autista. Ci scappavano sospironi. Non uno di noi alzava il tono di voce, neppure per gridare la sua rabbia. Penso alla stessa materia prima in mano alla troupe di altri processi, a cosa ne farebbe. Quel giorno, se avessero proposto a noi tre di non mandare in onda il Processo, avremmo probabilmente detto di sì.

Molto probabilmente il giornalismo del ciclismo è pessimo giornalismo, molto probabilmente gettiamo via straordinarie occasioni di audience. Molto probabilmente siamo dei poveri fessi. Ma il fatto è che noi giornalisti del ciclismo amiamo il ciclismo, e con esso vogliamo fare l’amore. Mentre i giornalisti del calcio vogliono, con il calcio, fare sesso. E ci riescono.

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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