Noi che sognamo un uomo-Chievo
di Gian Paolo Ormezzano
Ci chiediamo come mai non c’è un Chievo del ciclismo, e la domanda vale indipendentemente dalle ultime vicende della formazione veronese, che ha intitolato a se stessa, alle sue prodezze, tanta parte del campionato di calcio. Un ciclista solo, non una squadra, però tagliato, stagliato come la compagine veronese. Uno che si diverta a pedalare, ad attaccare. Che soprattutto sovverta i pronostici (a pensarci bene, divertirsi pedalando è assai più difficile che divertirsi dando calci ad un pallone). Uno che guadagni meno, molto meno, di quelli che pure lascia indietro in corsa.
Una volta il ciclismo era pieno di uomini-Chievo. Al Tour de France c’erano addirittura le squadre chiamate «dei regionali», e schieravano corridori che riuscivano ad esaltarsi, magari passando sulle strade della loro regione, in maniera speciale e simpatica. Andavano all’attacco, talora vincevano anche, sempre creavano simpatia intorno ad essi ed al loro sport. Quando al Tour del 1952 Fausto Coppi dominava la corsa, uno dei «regionali», alla fine di una tappa vittoriosa, partecipò via radio il suo ringraziamento a «monsieur Fostò» che gli aveva dato il permesso di vincere. Adesso il presidente del Chievo sembra chiedere scusa, per quello che ha fatto, a squadre più grandi, teoricamente, della sua. E si proclama comunque tifoso dell’Inter, che in un certo modo potrebbe essere il suo Coppi, però dominante nell’archivio, non sulla strada. I francesi chiamavano quelli di Chievo «enfants du pays».
Ogni tanto si pensa che un uomo-Chievo possa arrivare al ciclismo dalla Colombia, dall’Est europeo, o dal Sud dell’Italia. Uomo-Chievo fu, a suo modo, Vito Taccone, quando vinceva tappe al Giro d’Italia e faceva suonare le campane ad Avezzano. Un uomo-Chievo, a pensarci bene, fu il contadino Fausto Coppi, piemontese di Castellania, al Giro d’Italia del 1940, cominciato da gregario di Bartali e finito in maglia rosa.
Il ciclismo dovrebbe inventarsi un Chievo. Uno che magari proprio al Tour ringrazia, se non il Coppi di turno - che non c’è o che è uno strano americano, sin troppo didascalico per essere tutto vero - la vita che gli permette di fare soldi e di avere gloria pedalando come suo padre ha pedalato, in bicicletta e in metafora, per tutta l’esistenza. Uno che assorba simpatia e ne mandi in giro. Poteva essere Pantani, se faceva di più il romagnolo semplice e di meno il fenomeno offeso dai sospetti e intanto imbarazzato dalle prove. Pantani a maggio, giugno e luglio del 1998 fu un gran bel Chievo.
Possibile che non nasca un ragazzino, anzi un ragazzone, che al via vada in fuga e che mentre i tecnici dichiarano che non può farcela ce la faccia, oppure che scoppi però mandando in giro infinite e contagiosissime spore di simpatia?
Possibile che, se questo ragazzino nasce, lo si uccida subito, magari in culla se si riesce a individuarne la vocazione? Possibile, uno così dà disturbo. A chi e cosa non si sa bene, però si sa che dà disturbo.
Eppure non dovrebbe essere difficilissimo far nascere un piccolo Chievo in bicicletta. Non ci sono problemi di gruppo, di coordinazione, di schemi, di azioni comuni. Basta uno che pedali, che ci dia dentro. Adesso poi, se stacca il gruppo fannullone di un quarto d’ora, può anche sperare che, come al Giro del Piemonte, gli ignavi vengono messi fuori corsa.
Idealmente siamo su una strada, e aspettiamo il Chievo. Magari Paolo Conte, quello di «sono qui che aspetto Bartali», ci fa sopra un’altra bella canzone.
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Continuiamo ad agganciarci al mondo del calcio, parliamo di squadra azzurra. Stiamo andando verso il Mondiale del pallone, abbiamo lasciato indietro quello della bicicletta. Proviamo il massimo teorico del divertimento masochistico: cosa accadrebbe nel calcio se ci fosse una vicenda di confusione interna in qualche modo simile a quella di Simoni che va in fuga nel finale, di Lanfranchi che gli porta addosso il gruppo dicendo di non averlo visto, di una gara tutta corsa per linee interne da uomini della stessa squadra di marca, con o senza contratto per l’anno prossimo, di un commissario tecnico italiano impacciato anzicheno?
Accadrebbero cose turche, e anche cose afghane e anche cose papuasiche e ottentotte. Se si pensa che qualcuno sparò dei colpi di pistola contro l’aereo che riportò a casa da Messico, dopo il Mondiale 1970, la squadra azzurra arrivata alla finale, e tutto per il mistero di Rivera, escluso dalla finale stessa e poi messo in campo a soli sei minuti dalla fine, è molto facile, molto logico immaginare un disordine cosmico, sia pure entro i confini del Bel Paese. Invece noi del ciclismo abbiamo subito digerito tutto. Ma non è che abbiamo uno stomaco di ferro: è che ormai siamo senza organi interni speciali, siamo un tubo digerente e basta, come i serpenti che, appunto, strisciano.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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