Torna il tempo delle corse in bianco e nero
di Gian Paolo Ormezzano
Parliamoci chiaro: il ciclismo in questo 2001 ha perso tanti colpi, almeno in Italia. Dobbiamo ammettere di non poter più servire neppure al nostro pubblico (e non parliamo al pubblico internazionale) una grande corsa, un grande evento. Neanche il Giro d’Italia. Non siamo più in grado di produrre un kolossal ciclistico a colori. Inutile illuderci e illudere, sognare, contrarre debiti a breve presso l’opinione pubblica.
Per questo si deve impreziosire un certo ciclismo piccolo ma tenero, intenso, sentimentale. Perché è l’ultimo ciclismo importante che possiamo coltivare. Ormai non si può più coltivare il sogno di una sfida assoluta, della produzione di uno show per tante platee. È il tempo dell’intimismo, del minimalismo, della valorizzazione di quel che si ha, delle gustose zuppe di pane nero e cavoli, e non da mangiare una volta ogni tanto nel ristorante chic, bensì da assumere come nutrimento quasi fisso.
È il tempo del ciclismo in bianco e nero.
La scelta della definizione è ispirata, sublimata nella presentazione che il Giro dell’Appennino fa di se stesso, avvenimento agonistico ligure che diventa anche piemontese per un passaggio nelle terre di Fausto Coppi, che nel 1955 firmò sulla Bocchetta la sua ultima grande vera vittoria. La trovata è geniale e forte, toccante e precisa: l’ultima corsa in bianco e nero, cioè di ciclismo all’antica, senza troppi interventi di sponsor asfissianti e di televisioni rutilanti, e con tanto volontariato vecchio stile. In un paesaggio forte e scarno, un paesaggio da amare dopo averlo conosciuto, non a cui voler bene in maniera epidermica e repente. Un paesaggio povero, ruvido, onesto, che fa pensare alla castagne, non alla frutta tropicale.
Nata nel 1934, vittoria di Como, la corsa ha un palmarés statisticamente specialissimo con le sei vittorie consecutive di Baronchelli dal 1978 al 1983. L’hanno vinta anche Martini (lui? lui!), Moser, Balmamion, Zilioli, Dancelli, Motta, Bugno. Argentin, Chiappucci... L’ultimo è stato Shefer, lo scorso aprile. Prossima edizione l’11 maggio del 2002. Sempre con partenza e arrivo a Pontedecimo, che per qualcuno è Genova, per quelli della corsa è un paese fervido e gentile, con le cerimonie di vigilia, partenza e arrivo seguite con una specie d’amore. E la corsa va per valli burbere, fra gente chiara, e i suiveurs prendono per tempo appuntamento in osterie di cibi buoni e sapienti, e si passa anche dove i fratelli Coppi pedalavano in allenamento, scambiandosi in dialetto programmi di caccia e previsioni di raccolto.
Ultima corsa in bianco e nero, senza lussi, di austerità voluta, conclamata, non appioppata da una crisi. Austerità conservata, difesa, non patita, portata come un fiore all’occhiello, e pazienza se pedalatori celebri (ma ancora per quanto?) non riescono a capirla, sbuffano a spartirla.
Ultima corsa in bianco e nero. Speriamo che non sia troppo vero, che altre corse rivendichino con buoni esempi l’assenza di colori (il bianco e il nero per la fisica non sono tali) che spesso è anche presenza di pudori, di ritegni, di educazione. Sicuramente sono in bianco e nero tante corse di quelle cosiddette «minori», dei dilettanti, sono in bianco e nero circuiti di paese organizzati con salassi individuali di denaro per trasfusioni ad assi celebri, dei quali si incrementa l’ematocrito economico. Sono in bianco e nero, possiamo testimoniarlo, anche alcuni arrivi, persino alcune tappe del Giro d’Italia. Ma l’impressione spesso è di insofferenza, di disagio, di insoddisfazione per il bianco e nero coatto, che sta incombendo su tutto il ciclismo. Quello del Giro dell’Appennino è un bianco e nero voluto, cercato, difeso, e intanto vivo, efficiente, non museale. Al posto di Pantani cercheremmo su strade così, in posti così, l’affermazione del ritorno. Ma Pantani sa ancora amare il bianco e nero?
jjjjjjjj
Possiamo dire, senza passare per disfattisti, per nemici dell’umanità, che noi che amiamo il ciclismo ci siamo divertiti da matti nel caso calcistico del nandrolone? Che a seguire le acrobazie chimiche, le evoluzioni giuridiche, le spinte dei potenti, le confusioni dei giudici, alla fine le vergonose comminazioni di piccole pene, abbiamo soprattutto provato divertimento per gli imbarazzi altrui? Vero che alla fine hanno vinto gli inghippi delle facce di bronzo, vero che alla fine la giustizia è stata sfatta, distrutta, ma a rileggere le motivazioni, le sentenze, le mezze condanne anzi le mezze assoluzioni, ci siamo proprio divertiti. Potevamo anche sdegnarci, oppure potevamo scegliere di autodefinirci giganti di ingenuità, di masochismo, alla fine di onestà, ma il senso del riso ha prevalso. Speriamo ci possiate capire e scusare. Con un sorriso, che è molto più del riso.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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