Parole nuove per il nostro sport
di Gian Paolo Ormezzano
Esiste una possibilità che è una di convertire in positivo tutto quello che di brutto è ultimamente accaduto addosso e dentro al ciclismo? Ma attenzione: diciamo conversione diretta, senza tante perdite di tempo, tanti sproloqui paraculturali, pasacioli, tante fritture d’aria. Così, al volo, con due pedalate di parole.
Secondo noi sì. Bisogna scomodare parole nuove, però, che non siano fatica, povertà, umiltà. Per esempio la parola «coraggio»: il coraggio di osare anche chimicamente e soprattutto - attenzione, è importante - sapendo di essere controllati, spiati, sospettati, indagati, inquisiti, perquisiti, violentati. Il coraggio diverso dall’improntitudine di chi pensa o pensava (il caso del calcio) di essere invulnerabile, o di chi pensa di riuscire sempre a farla franca.
Per esempio la parola «sperimentazione». Non che sia in corso nel ciclismo una nobile gara scientifica a conoscere cose del nostro corpo, ma insomma fra scalare una vetta a pane e acqua e scalarla a Epo c’è uno spazio in cui si possono magari scandagliare e capire alcune situazioni dell’uomo: e non è detto che debbano essere capite per essere poi frequentate, possono essere capite e buttate via.
Per esempio la parola «emulazione». Il ciclismo è ancora sport virginale, nel suo assunto primario, sentimentale, e patisce l’emulazione interna, nel bene e nel male, forse più di ogni altro sport. Dunque deve godere di una certa indulgenza quando questa emulazione, ineluttabile, diventa assunzione di brutte usanze. Non che si tratti di una cosa bella, no, anzi. Non che decadano le responsabilità di chi genera cattiva emulazione, anzi. Ma un po’ più di comprensione per chi emula, accanto a un po’ più di severità per chi si fa malamente emulare, potrebbero non guastare.
Per carità, sono tutte acrobazie per galleggiare sul guano. Però non è il caso di rinunciare a tutte le ciambelle di presalvataggio. Purché non si tratti della solita ciambella bucata, sempre piena d’acqua, quella della corresponsabilità: dire insomma che lo fanno tutti, chiedere perché gli altri sì e io no. Un ladro non può scusarsi col latrocinio diffuso, né pretendere che la guardia, in attesa di arrestare tutti, non arresti lui.
Il ciclismo deve accettare insomma il principio per cui da qualche parte bisogna pure cominciare. Il problema poi è che non si finisca soltanto e sempre in uno stesso punto. Perché si hanno i mezzi per andare anche altrove, senza mai trascurare quel punto. Il ciclismo sarà del tutto responsabilizzato quando l’antidoping andrà in forze anche nel calcio ma senza sguarnire il ciclismo stesso.
(Certo che il vecchio giornalista non credeva di dover arrivare a scrivere così quando cominciava il mestiere, e il massimo problema etico negativo che il ciclismo gli poneva era il sacrificio eventuale, nelle prove a tappe, di Nino Defilippis detto il Cit a pro di Franco Balmamion).
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Certo che in questo lungo durissimo periodo poteva andare peggio. La gente, ad esempio, non ti rimprovera tutto quello che hai scritto in passato sul ciclismo, tutta la tenera epica che hai cercato di trasmetterle, tutti i racconti gloriosi. Personalmente e diciamo pure professionalmente, ho patito di più le critiche, i risolini per quello che avevo scritto dai Giochi olimpici di Seul 1988, celebrando Ben Johnson poi squalificato per doping e privato di vittoria e primato mondiale sui 100 metri, che per tutto quello che ho scritto dei ciclisti poi rivelatisi pervasi, invasi dal doping. Sembra quasi, ed è molto bello, che si ritenga il ciclismo in possesso di una capacità superiore di epica e quindi anche etica comunque assoluta, superresistente, indistruttibile. Penso che persino la scoperta che Fausto Coppi si stradrogava non intaccherebbe nulla del mito del Campionissimo. Lo penso e spero che nessun impegnatissimo Guariniello adesso apra un’inchiesta sulle usanze chimiche del contadino di Castellania.
Ma a proposito di Castellania: ricevo continuamente volantini, programmi, dépliants, lettere che mi annunciano iniziative in ricordo di Fausto, e spesso anche di Serse. Da Castellania, si capisce, da Novi Ligure, da Tortona, da Alessandria, da Torino. Signori, sono passati quarantun anni e sembra addirittura che nostalgie, memorie, sospiri, impegni rifioriscano. E diciamo subito che la spesso bieca - nel senso di sfruttamento - componente turistica non esiste, o se esiste è minima. Si offre soprattutto di faticare sulle strade di Fausto, di pedalare, di andare in pellegrinaggio in luoghi per niente ameni. E Castellania, via, non è il paese più bello del mondo, e il menu della locanda dell’Airone è piuttosto semplice, e la rimessa in ordine casa di Coppi è interessante, ma non affascinante.
Però ho sempre voglia di andare da quelle parti, e quando ci manco da un po’ di tempo la voglia cresce. E non è che vada lassù a chiedere scusa Fausto per come gli abbiamo conciato il ciclismo, ma per informarlo che tutto in qualche modo va sempre avanti, e magari tornerà ad andare avanti bene.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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