Coppi, il Torino e la sfida delle emozioni
di Gian Paolo Ormezzano
Debbo fare una confessione: delle due entità che hanno invaso la fase onirico-sportiva della mia gioventù, probabilmente spingendomi a fare il giornalista sportivo, con tutte le penose conseguenze che da questo mio lavoro sono derivate per l’umanità, una batte nettamente l’altra, in una contesa molto speciale, molto mia, e non è che la cosa mi delizii. Sto parlando del Grande Torino, scomparso nel 1949 in un incidente aereo sulla collina di Superga, e di Fausto Coppi, morto di malaria non diagnosticata all’alba del 1960. Ho tifato pazzamente Coppi e Torino senza neppure sapere allora, come pure vero, che Coppi era un grande tifoso del Torino.
Preciso subito: chi vince è Coppi. Vince, preciso ulteriormente, nella contesa per la migliore qualità del ricordo, del culto. Vero che i tifosi granata soffrono per Superga come fosse ieri, ma vero anche che la loro sofferenza non ha la compagnia della sofferenza di altri, quando addirittura quella tragedia non serve, allo stadio, per ignobili striscioni e cori della tifoseria avversaria. Il Torino con le sue vicende spesso difficili viene poi accusato di patire la sindrome di Superga, di non saper uscire dal pianto, che ad un certo punto diventa lagna.
Vince Coppi perché il rimpianto, il dolore per la sua scomparsa sono di tutti, anche degli antichi bartaliani, anche dei giovani pantaniani che ovviamente non hanno mai visto Fausto. Gli undici anni in meno che ha il lutto per il ciclista rispetto al lutto per i calciatori non bastano assolutamente a spiegare la vittoria di Coppi. E si tenga conto, fra l’altro, che il calcio ha un seguito popolare decisamente più vasto di quello, pur grande, del ciclismo, e che la quantità di partecipazione dovrebbe, potrebbe evolversi anche in intensità globale dei sentimenti.
Mi tocca sovente, all’occaso di una vita con lo sport, e dunque in possesso di valori testimoniali che sollecitano altri a chiamarmi qua e là per raccontare, per riferire, di dover, come dire?, gestire la persistenza di queste due entità, Fausto Coppi e il Grande Torino, e penso di avere sufficienti elementi per dire che nella gara a chi rinfocola, emoziona, commuove, sollecita, vellica, provoca, raccoglie più dolore, quasi sempre vince Coppi.
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Per esempio una serata a Tortona mi ha dato una prova specialissima dell’amore per Coppi, un amore questa volta rabbioso. Dunque avevo fatto dare ad un convegno sull’immanenza di Fausto nel ciclismo tutto, nella nostra vita di appassionati dello sport, il titolo di «Il Grande Fratello Coppi». Avevo pensato ad un Campionissimo che da lassù vigila sul nostro ciclismo attuale, che gli fa comunque sentire il suo fiato sul collo, che in un certo senso lo tara, che lo giudica sempre o comunque fornisce a noi se stesso come strumento di giudizio per filtrarlo.
Uno spettatore tortonese mi ha chiesto ragione del titolo, e lo ha fatto con toni forti, quasi irati. Per rimproverarmi delle parole che avevo scelto, per rinfacciarmi l’uso di quel binomio biecamente popolare, Grande Fratello, addosso al cognome sacro di Coppi. Confido di essere riuscito a spiegargli che pensavo a Orwell, non a Taricone & C, che fra l’altro non ho mai televisto. Spero di averlo convinto, ma non ne sono sicuro in pieno. Spero che legga queste righe.
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La gente del ciclismo è convinta che noi giornalisti sappiamo su Pantani la verità delle verità, sappiamo cose che gli umani non arrivano a pensare, e non le scriviamo.
Questo è un segno della importanza del personaggio-Pantani. Accade a pochi, nello sport almeno, di provocare nei tifosi la credenza, la sensazione che i giornalisti non spartiscano tutto quello che sanno su un certo campione, quasi per una sorta di gelosia delle cose di cui sono in possesso. Quando Merckx correva, mi accadeva sovente di sentirmi chiedere, da chi magari un minuto prima mi aveva ringraziato per quello di buono che avevo scritto sul belga, il suo campione preferito: «Ma adesso che siamo a quattr’occhi, dimmi tutto, dimmi come è davvero Merckx. Sai, io sono un suo grande tifoso e invidio te che lo conosci, lo frequenti».
Più cercavo di dirgli che su Merckx avevo scritto davvero tutto quello che sapevo, più mi accorgevo che lui non mi credeva.
Come quando in piena campagna-acquisti del calcio il giornalista viene interrogato dai tifosi perché a loro dica tutto, ma davvero tutto, di clamorosi cambi di maglia dei quali lui sicuramente è al corrente. Invano il giornalista dice, o cerca di far capire, che lui per riempire il giornale deve persino inventarsi acquisti, sparare frottole, altro che tenere da parte delle cose vere. Non solo non viene creduto, ma addirittura passa per un cattivone che non riversa sugli altri neppure una goccia della sua immensa oceanica fortuna.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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