Pantani e un’intervista «al caminetto»
di Gian Paolo Ormezzano
Una volta il quotidiano di sport per cui lavoravo pubblicava, ogni inverno (e la cosa durò per molti anni) una serie di articoli intitolata «Ciclisti al caminetto»: erano servizi, abbastanza ingenui, decisamente buonisti, in cui l’intervistato (raggiunto spesso soltanto telefonicamente, anche se in testa all’articolo veniva scritto, prima della data, «dal nostro inviato») passava in rassegna la stagione conclusa, prenotava gare importanti della stagione a venire, passava in rassegna gli errori, riduceva la cose belle a un «fare soltanto il proprio dovere», esprimeva buoni propositi personali ed ecumenici.
Mi è venuto da pensare a una rubrica così con Marco Pantani. Magari andando proprio a trovarlo a Cesenatico, e perché adesso la sindacalizzazione non permette di usare disinvoltamente quel «dal nostro inviato», e perché il personaggio merita senz’altro lo spostamento.
Dunque Pantani retrocesso nel tempo, ricondotto al cliché primigenio del ciclista, tutto semplicità, casa ritrovata dopo il lungo vagabondare, insomma caminetto al quadrato, al cubo, Pantani che accetta di parlare della stagione lasciata alle spalle, e del futuro anche, come un ciclista di una volta. Senza nessun esperto di pierre accanto a lui per dosare domande e soprattutto risposte. Senza complesso di colpa ma neppure di persecuzione. Senza l’oleografica piadina, ma però con tutte le dosi giuste di romagnolità al posto giusto.
Gli vorremmo chiedere di chiarirci il mistero di Sydney, della sua autoconvocazione olimpica accettata da quasi tutti, del suo districarsi, in Australia, dal viluppo di accuse e di sospetti che si era portato dietro dall’Italia. E del suo fare una corsa modesta, deludente, senza per questo passare neanche per un attimo sul banco degli accusati. Della rivendicazione di una sorta di diritto divino alla maglia azzurra, con il «sì» di quasi tutti, e specialmente del commissario tecnico Fusi.
Naturalmente, ripristinata una certa atmosfera, lui ci direbbe tutto, e con estrema cortesia, suscitando l’interesse nostro e dei lettori, e permettendoci di fare (non di fargli, per carità) un bel servizio.
dddddd
Perché, via, questo Pantani 2000 è misterioso ancora più del Pantani ’99, che già da questo punto di vista non era niente male. Con tutti i suoi incidenti su quattro ruote, come se su due ruote avesse ormai esplorato tutto l’esplorabile, e non avesse più niente di grandguignolesco da cercare, da sperimentare, da offrire.
Misterioso con la sua partecipazione al Giro d’Italia sofferta ma esaltante, con la sua partecipazione al Tour molto particolare, abbastanza strana, gli attacchi da salute e pedalata ritrovata, la sua partenza non attesa, sorprendendo anche quelli abitualmente più vicini a lui.
Pantani davvero strano, stranissimo, talora chiuso in una torre di avorio, e avorio «armato», con supporti in ferro e in oro, talora esposto a tutti i venti. Pantani lontano per tanti mesi da una dichiarazione non studiata, non diplomatica. Pantani che arriva a Sydney e non si arrabbia anche se un ciclista azzurro della pista, Silvio Martinello, fa sapere che era meglio se restava a casa, e arriva a chiedersi come mai il CONI porta ai Giochi un personaggio che potrebbe danneggiare il ciclismo italiano.
Pantani che ha tutti i diritti di essere com’è, ci mancherebbe altro, ma a proposito del quale noi abbiamo tutti i diritti di porre domande, di essere anche perplessi. Non perché, da ipercritici, dimentichiamo cosa di grande ed eccitante lui ci ha dato, ma perché, da appassionati, vogliamo avere da lui ancora altro, di tutto ma specialmente di più.
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Le cose intorno a Pantani sono in effetti confuse, e lui non fa molto per offrirsi ad un chiarimento pieno. Ovviamente il comportamento che tiene, riservato un giorno, duro l’altro, introverso un giorno sino a frequentare l’isolamento, estroverso l’altro sino a sfiorare l’arroganza, appartiene ai suoi diritti. Ma appartiene al nostro dovere giornalistico cercare di sapere qualcosa di più. Diciamo addirittura che Pantani ci ha obbligati troppo bene, nel passato, e che adesso per sua bella «colpa» non siamo capaci di aspettare, quasi di pretendere da lui molto, e presto.
Anche perché - ecco il punto di un nostalgico di quei servizi sui ciclisti intorno al caminetto - diventa sempre meno facile la difesa piena del suo personaggio di fronte a tanto altro mondo dello sport, che vuole papparsi, come fosse una piadina, questo romagnolo persin fastidioso, in certi momenti, per quanto bravo, e senza seguire i canoni estetici dello sport, e in altri momenti persin patetico per come commette errori e non li ammette mai.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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