Rapporti&Relazioni
Pantani il profeta che non abbiamo avuto
di Gian Paolo Ormezzano

Per semplice smania giornalistica, quella che ci possiede da ormai mezzo secolo e non vuole smettere di andarsene via, abbiamo pensato, a cavallo tra il 2001 e il 2002, al ruolo che avrebbe potuto giocare (giocare alla francese, jouer, cioè recitare) Marco Pantani se non avesse deciso per un altro copione al posto di quello che ha interpretato, peraltro con profonda convinzione e con impegnatissimo realismo.
Dunque, accusato di doping anzi di ematocrito alto nel Giro d’Italia del 1999, Marco Pantani, che l’anno prima aveva vinto Giro e Tour elevandosi statisticamente e non solo all’altezza dei Coppi, degli Anquetil, dei Merckx, degli Hinault e pazienza anche dei Roche, anziché trincerarsi dietro disperate e disperanti affermazioni di innocenza, o addirittura dietro mascherature da perseguitato, avrebbe potuto dire: «Ebbene sì, ho l’ematrocrito alto e come tutti prendo certi prodotti, peraltro consigliatimi anche da medici illustri, che fanno aumentare i globuli rossi, più velocemente e più sicuramente di un soggiorno in alta montagna. Naturalmente non è bello, forse non è giusto, ma si tenga conto di quali e quante sollecitazioni noi pedalatori dobbiamo subire, sia per la natura speciale del nostro sport, che richiede fatiche da bestia, sia per le esigenze del calendario e degli sponsor, e si veda come ovviare, sedendoci tutti attorno ad un tavolo e dicendoci tutto e studiando cosa si può fare».

Aveva il carisma, la forza, il potere per fare questo, per assurgere a realistico interprete e forgiatore di un’epoca. Aveva dominato sin lì il Giro d’Italia in una maniera così perentoria che nessuno poteva credere che si trattasse soltanto di globuli rossi, peraltro abbondanti nel sangue di un po’ tutti i corridori. Poteva parlare da profeta, da guru, da capo. Poteva prendere la guida sentimentalscientifica del nuovo ciclismo. Sì, lì per lì lo avrebbero punito, come d’altronde hanno fatto lo stesso, ma poi lui sarebbe emerso come una sorta di messia. Invece...

Invece, con l’aiuto colpevole anche nostro, e soprattutto di quelli fra di noi che hanno assecondato la tesi populistica, demagogica della sua piena innocenza, Marco Pantani si è molto semplicemente arroccato su posizioni personali scontrose, irate, assolutistiche, radicali. Per cominciare a patire, da quel momento, il flusso di sospetti su tutta la sua carriera, su tutti i suoi passaggi agonistici, su tutti i suoi accidenti ed incidenti, a cominciare da quello spaventoso di Torino nel 1995.
E adesso? Adesso c’è un corridore che tenta di risalire una corrente contraria impetuosa, che si vede discussa anche e specialmente dai nemici piccini tutta la sua carriera, che conta gli amici veri sulle dita di una mano, al massimo di due, che si vede rifiutato dal Tour e sopportato prima (Sydney 2000), escluso poi (Lisbona 2001) dalla Nazionale azzurra. Che cerca di riedificarsi cambiando ambiente, tagliando i ponti con quello stesso passato che comunque gli torna continuamente addosso, con avvisi di garanzia ed accuse nuove e vecchie e sospetti banali o molto sofisticati.

Non è stato un buon affare per nessuno. Non per il ciclismo, non per il giornalismo ciclistico. Non per Pantani, non per gli amici ed i nemici di Pantani. Francamente non riusciamo a immaginarci il suo 2002: come sarà, anzi «se» sarà. Non sappiamo bene se essere più arrabbiati con noi stessi che non siamo stati subito duri e sinceri, o con lui che ci ha spinti a essere insinceri, tolleranti, speranzosi, mallevadori.
Siamo tristi, depressi, avviliti. E soprattutto timorosi per un ciclismo, il nostro, che o sarà senza Pantani, o avrà un Pantani comunque dimezzato, per non dire di più, di peggio. Naturalmente speriamo di sbagliarci e di celebrare di nuovo il personaggio a tutto tondo, ma ci sembra che il pessimismo sia realistico e quasi quasi doveroso. Ovviamente non dimenticando quello che Pantani ci ha dato. Ma proprio per questo, non dimenticando quello che avrebbe potuto darci.

jjjjjjjj

Il Giro d’Italia non potrà fare a meno di scontrarsi con il Mondiale di calcio, che occuperà tutto il mese di giugno. Ma al di là di questa sovrapposizione parziale di date, ci sembra che il ciclismo debba ad ogni costo, e se del caso ad ogni prezzo, inventarsi qualcosa che sia insieme legato al calcio, per godere della luce riflessa, e staccato dal calcio per non significare dipendenza, suddittanza. Qualcosa si capisce di televisivo, perché non c’è vita viva, forte fuori dalla televisione, così come non c’era, per Giulietta e Romeo, vita fuori dalla mura della loro Verona.
Noi non sappiamo assolutamente cose proporre. Lo sapessimo, ci candideremmo alla presidenza della Federciclismo.

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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