Per tanto e probabilmente troppo tempo il ciclismo ha generato ed ha vissuto storie anzi favole di Natale per una sorta di automatismo sentimentale e non solo. Una specie di partenogenesi, nessun bisogno di inseminamento da parte di qualche entità esterna. Il ciclismo inteso come mondo intero agonistico della bicicletta, si capisce, cioè atleti e spettatori dei gesti degli atleti, e però spettatori disciplinati sempre come comparse intanto che coinvolti come attori, e giornalisti amici e partecipi: perché davvero chi dice “forza!” al ciclista che passa lo dice pensando di inculcargli, insufflargli energie.
Ogni corsa ha visto per anni una qualche nascita ed un qualche dipanarsi di una favola buona per quel Natale che per i semplici può ricorrere ogni giorno dell’anno. Questo nascere e crescere è stato abbondantemente sufficiente per l’insorgere e lo svilupparsi di una mitologia, dove le divinità, i campioni, sono stati contornati ed omaggiati dai fedeli, gli spettatori, e dai sacerdoti concelebranti, cioè gli altri pedalatori intesi come gregari. Una rappresentazione tenera e intensa che al mondo del ciclismo bastava eccome, anche perché lo coinvolgeva tutto, compresi i giornalisti che erano specialmente narratori (i più popolari erano detti cantori). La produzione favolistica era ottima e abbondante, anche nelle micropieghe di una piccola corsa si potevano rintracciare vicende, passaggi, momenti appunto da favola di Natale. Tutti i personaggi erano altamente emblematici e in linea di massima positivi, come sono i personaggi del presepe, dal Bambinello ai suoi illustri e umili genitori, ai Re Magi ma pure ai pastori, e sinanco all’asinello e al bue dal fiato caldo come quello dei tifosi, per non dire della assai viva stella cometa giornalisticamente impegnatissima a brillare lassù, a certificare un evento misterioso, ad esaltare il mistero dell’attesa (la dizione è del grande Bruno Raschi, ancora cantore in tempi già di realismo) che è tipico degli umani di fronte al destino, e quindi anche di uno spettatore che aspetta (aspettava, adesso sa già tutto “prima”) chi sbucherà per primo da quella curva.
Poi è arrivata nel ciclismo la televisione, con tecnologie in continua crescita e in continua e anche un bel po’ proterva voglia di sopraffazione dell’evento quale visto dai nostri poveri occhi, per sostituirlo (magari fingendo di volerlo soltanto integrare) con quello offerto e anche imposto da essa. Intanto era arrivata la chimica sofisticata e proterva, per sostituire un uomo con un altro formalmente, apparentemente simile ma diverso “dentro”, e confonderci le idee. Era arrivata la pubblicità che avevamo pensato fosse soltanto figurativa, e che invece andava elaborando programmi, schemi, calcoli dell’uso e anche dello sfruttamento degli eventi.
E ciao permanente costante imprescindibile favola di Natale. Al posto casomai la storia quasi trucida dei Riccò di ogni paese, e dei loro antecedenti e succedanei. Per non dire dei Pantani, vicenda della cui ultima drammatica parte fortunatamente sembra essersi perso il cliché per la riproduzione. Intanto che è cresciuta, prima come una escrescenza casalinga della televisione poi come entità a sé, anche tipo totem e moloch, quella cosa che ci ostiniamo a chiamare internet mentre ci vorrebbe un altro più esplicito termine, anche composto, che ne compendiasse la forza terribile e ancora misteriosa.
L’altro grande sport popolare italiano, il gioco del calcio (un gioco che meno gioco non si può), ha dismesso assai prima del ciclismo le vecchie favole di Natale, e non solo ha patito infiltrazioni forti, ma addirittura le ha sollecitate, si è aperto ad esse, però facendo intanto operazioni furbe di mimetizzazione, di travestimento e se del caso di occultamento delle cosacce, doping compreso, doping e persino droga. Intanto lasciando tutto lo spazio sul palcoscenico a quella cosaccia che piace a quasi tutto gli umani - escluso qualche figlio di Gandhi o discendente di san Francesco, se si presenta in foggia seducente ed in forme grandi, in vesti opime - e che si chiama denaro.
Il risultato finale è questo: il ciclismo ha generato e cresciuto e vissuto milioni di favole di Natale, ma se adesso ne espone una fuori dalla propria chiesetta è sospettato di falso (“sono tutti dopati, o se vanno forte magari è perché nascondono un motore nel telaio”), mentre il calcio, che di vere favole di tipo natalizio in proporzione ne ha avute pochissime, adesso riesce a far credere di produrne e viverne e farne vivere molte, perché il suo palcoscenico è più cattivante, è ricco, è sontuoso, la rappresentazione è pubblicizzata bene, con furbe anzi sapienti dosi di pathos e di frottole sardanapalesche, e si sa che se metti in scena l’opera senza badare a spese nella scenografie e nei costumi anche un cane di tenore sembra un fratello di Pavarotti.
Ora bisogna decidere se la penuria di favole di Natale sia ovviabile, nel ciclismo, a dispetto di cosa gli è capitato. Chi di noi lo ritiene possibile pensa che certi valori, certi sentimenti siano immortali. Chi è per il no ha sposato un pessimismo cronico per molti aspetti legittimo, e casomai si trova ad auspicare, per il mondo quindi anche per se stesso, una catarsi e pazienza se drammatica, fragorosa, cruenta, purché voglia dire, secondo la genesi greca del termine, davvero purificazione. Poi ci sarebbe anche il gioco di giocare a cosa diavolo può ancora succedere, di ricco e di brutto, di ricchissimo e di bruttissimo, nel calcio, ma questo è un altro articolo.
Articolo? Sì, ci è scappato un articolo. Eppure ci eravamo messi al computer (altro mostro, indispensabile pare) pensando di scrivere qualcosa di simile ad una favola di Natale. A questo punto di confusione siamo arrivati. Ma almeno adesso sappiamo meglio che da questo punto dobbiamo assolutamente staccarci. Andando in fuga.
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