Rapporti&Relazioni
Fiabe di Natale

di Gian Paolo Ormezzano

Per tanto e probabilmente troppo tempo il ciclismo ha generato ed ha vissuto storie anzi favole di Natale per una sorta di automatismo sentimentale e non solo. Una specie di partenogenesi, nessun bisogno di inseminamento da parte di qualche entità esterna. Il ciclismo inteso come mondo intero agonistico della bicicletta, si capisce, cioè atleti e spettatori dei gesti degli atleti, e però spettatori disciplinati sempre co­me comparse intanto che coinvolti come attori, e giornalisti amici e partecipi: perché davvero chi dice “forza!” al ciclista che passa lo dice pensando di inculcargli, insufflargli energie.

Ogni corsa ha visto per anni una qualche nascita ed un qualche di­pa­narsi di una favola buona per quel Natale che per i semplici può ricorrere ogni giorno dell’anno. Questo nascere e crescere è stato abbondantemente sufficiente per l’insorgere e lo svilupparsi di una mitologia, dove le divinità, i campioni, sono stati contornati ed omag­giati dai fedeli, gli spettatori, e dai sacerdoti concelebranti, cioè gli altri pedalatori intesi come gregari. Una rappresentazione tenera e intensa che al mondo del ciclismo bastava eccome, anche perché lo coinvolgeva tutto, compresi i giornalisti che erano specialmente narratori (i più popolari erano det­ti cantori). La produzione favolistica era ottima e abbondante, an­che nelle micropieghe di una piccola corsa si potevano rintracciare vicende, passaggi, momenti ap­pun­to da favola di Natale. Tutti i personaggi erano altamente em­ble­matici e in linea di massima po­sitivi, come sono i personaggi del presepe, dal Bambinello ai suoi il­lu­stri e umili genitori, ai Re Magi ma pure ai pastori, e sinanco all’asinello e al bue dal fiato caldo co­me quello dei tifosi, per non dire della assai viva stella cometa giornalisticamente impegnatissima a brillare lassù, a certificare un evento misterioso, ad esaltare il mistero dell’attesa (la dizione è del grande Bruno Raschi, ancora cantore in tempi già di realismo) che è tipico degli umani di fronte al destino, e quindi anche di uno spettatore che aspetta (aspettava, adesso sa già tutto “prima”) chi sbucherà per primo da quella curva.

Poi è arrivata nel ciclismo la televisione, con tecnologie in continua crescita e in continua e anche un bel po’ proterva voglia di sopraffazione dell’evento quale visto dai nostri po­veri occhi, per sostituirlo (magari fingendo di volerlo soltanto integrare) con quello offerto e anche imposto da essa. Intanto era arrivata la chimica sofisticata e proterva, per sostituire un uomo con un altro formalmente, apparentemente simile ma diverso “dentro”, e confonderci le idee. Era arrivata la pubblicità che avevamo pensato fosse soltanto figurativa, e che in­vece andava elaborando programmi, schemi, calcoli dell’uso e an­che dello sfruttamento degli eventi.

E ciao permanente costante imprescindibile favola di Natale. Al posto casomai la storia quasi trucida dei Riccò di ogni paese, e dei loro antecedenti e succedanei. Per non dire dei Pan­tani, vicenda della cui ultima drammatica parte fortunatamente sembra essersi perso il cliché per la riproduzione. Intanto che è cresciuta, prima come una escrescenza casalinga della televisione poi come entità a sé, anche tipo totem e moloch, quella cosa che ci ostiniamo a chiamare internet mentre ci vorrebbe un altro più esplicito termine, anche composto, che ne compendiasse la forza terribile e ancora misteriosa.

L’altro grande sport popolare italiano, il gioco del calcio (un gioco che meno gioco non si può), ha dismesso as­sai prima del ciclismo le vecchie fa­vole di Natale, e non solo ha pa­tito infiltrazioni forti, ma addirittura le ha sollecitate, si è aperto ad esse, però facendo intanto operazioni furbe di mimetizzazione, di travestimento e se del caso di oc­cultamento delle cosacce, doping compreso, doping e persino droga. Intanto lasciando tutto lo spazio sul palcoscenico a quella cosaccia che piace a quasi tutto gli umani - escluso qualche figlio di Gandhi o discendente di san Francesco, se si presenta in foggia seducente ed in forme grandi, in vesti opime - e che si chiama denaro.
Il risultato finale è questo: il ciclismo ha generato e cresciuto e vissuto milioni di favole di Natale, ma se adesso ne espone una fuori dalla propria chiesetta è sospettato di falso (“sono tutti dopati, o se vanno forte magari è perché na­scondono un motore nel telaio”), mentre il calcio, che di vere favole di tipo natalizio in proporzione ne ha avute pochissime, adesso riesce a far credere di produrne e viverne e farne vivere molte, perché il suo palcoscenico è più cattivante, è ric­co, è sontuoso, la rappresentazione è pubblicizzata bene, con furbe anzi sapienti dosi di pathos e di frottole sardanapalesche, e si sa che se metti in scena l’opera senza badare a spese nella scenografie e nei costumi anche un cane di tenore sembra un fratello di Pavarotti.

Ora bisogna decidere se la penuria di favole di Natale sia ovviabile, nel ciclismo, a dispetto di cosa gli è capitato. Chi di noi lo ritiene possibile pensa che certi valori, certi sentimenti siano immortali. Chi è per il no ha sposato un pessimismo cronico per molti aspetti legittimo, e casomai si trova ad auspicare, per il mondo quindi anche per se stesso, una catarsi e pazienza se drammatica, fragorosa, cruenta, purché vo­glia dire, secondo la genesi greca del termine, davvero purificazione. Poi ci sarebbe anche il gioco di giocare a cosa diavolo può ancora succedere, di ricco e di brutto, di ricchissimo e di bruttissimo, nel calcio, ma questo è un altro articolo.
Articolo? Sì, ci è scappato un articolo. Eppure ci eravamo messi al computer (altro mostro, indispensabile pare) pensando di scrivere qualcosa di simile ad una favola di Natale. A questo punto di confusione siamo arrivati. Ma almeno adesso sappiamo meglio che da questo punto dobbiamo assolutamente staccarci. Andando in fuga.
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