Gatti & Misfatti
Quelli che il calcio

di Crstiano Gatti

Radiografia di una crisi che tutti vedono e nessuno ci­ta. Calo intorno al 25 per cento dei soldi che gli sponsor riversano nelle squadre: dai 75 milioni di euro della scorsa stagione ai 57 per l’attuale. Una fa­tica mortale a richiamare il pubblico direttamente sugli avvenimenti. In passato, almeno, si di­ceva che la gente si era spostata tut­ta davanti alla televisione. Ora non regge più neanche questa: fanno una fatica mortale an­che a vendere gli abbonamenti tv. La perla più bella: una delle squadre più importanti reca scritto sulle maglie uno slogan molto poetico, lo stanno persino presentando come un geniale colpo di immagine, se non fosse che na­sconde la penosa verità: al mo­mento, questa squadra importantissima non ha ancora trovato un cane disposto a sponsorizzare con cifre decorose la sua luminosa missione. Sem­bre­rà strano, ma tutto questo cupo affresco non riguarda - per una volta - il ciclismo. Parlo del calcio italiano, primo sport nazionale. E per la cronaca la squadra che s’è scritta “Il calcio è divertimento” sul petto si chiama Fio­rentina. I pa­droni Della Valle, come sempre illuminati e ro­mantici, sostengono che lo slogan servirà a stemperare il cli­ma. E come no: stemperano il cli­ma, ma resta qualche pezza sul sedere.

Non ho la minima intenzione di avventurarmi nell’analisi delle cause e nella ricerca delle soluzioni di questo grave malanno (per decoro, ometto il disastro dei bilanci, che già sta portando a uno sterminio di società più o meno storiche del Paese). Non ne ho voglia e so­prat­tutto non ne ho i titoli. Devo dire che neppure loro, gli astuti manager del grande calcio, mi sembrano fertilissimi in tema di soluzioni: l’unica cosa che sanno ripetere, come un disco a gettone, è quella ormai consumata degli stadi nuovi, e chi non lo sa, “per risollevarci lasciateci fare lo stadio di proprietà”, come se uno stadio nuovo all’improvviso risanasse anche la loro avidità, la loro miopia, la loro pochezza. E comunque: buona fortuna. Han­no una grande necessità di sinceri auguri. Che si facciano lo stadio nuovo e tornino a sguazzare nell’opulenza degli anni d’oro. Sempre che ne siano capaci. Io parlo di loro solo per parlare - almeno una volta - di noi, del ci­clismo, in termini un po’ meno deprimenti del solito.

Intendiamoci: non è che guardando qualcuno in agonia noi che siamo malatissimi dobbiamo subito sentirci dei draghi. Non è questo il discorso. Noi dobbiamo guardare nel no­stro piatto e tirare le nostre conclusioni. Punto. Il confronto, se mai, serve a rendere un po’ meno tragiche e pessimistiche le considerazioni sulla crisi nostra, che an­cora c’è, ma che in qualche modo stiamo tutti gestendo con il giusto senso di preoccupazione. Men­tre il calcio affonda ballando sul Titanic, nel ciclismo quanto meno nessuno balla più. Tutti hanno capito che aria tira, già da tempo sentono l’umido dell’acqua alle caviglie, e quanto meno evitano inutili sbruffonate e allegre festicciole di clan. È questo, soprattutto, che lascia sperare: ri­spetto a dieci anni fa, quando le prime bufere di doping trovavano gente dell’ambiente impegnata soltanto a riderne, convinta che si dovesse solo aspettare il veloce passaggio del temporale, adesso si può effettivamente parlare di responsabile coscienza collettiva. Certo, per qualcuno i termini “responsabile” e “coscienza” suonano sempre stranieri, ma si tratta degli inguaribili. Ogni famiglia ne ha e deve sopportarseli. Ovviamente si parla del clima generale, non delle pecore nere.

Nel domani più vicino, possiamo vedere consolanti barlumi di serietà. I team, vecchi e nuovi, ormai si stanno strutturando con organici ad alta professionalità, partendo dai tecnici per arrivare all’ultimo autista. Gli investimenti sono ragguardevoli, cinque, otto, dieci mi­lioni a stagione. Soprattutto, al punto uno di qualunque programma c’è “guai a chi sgarra”: sarà pure un modo di dire, ma è molto bello che finalmente risuoni come un dogma. Le grandi aziende non sono più disposte a giocarsi la faccia per le porcherie di qualche idiota. Questo non elimina dal mercato l’idiota, ma fa sì che quanto meno i tecnici, i medici, i massaggiatori, le stesse famiglie comincino a realizzare la grossa novità: il lavoro dello sport, a certi livelli, è delicato, im­portante, rigoroso. Siamo alla semina, abbiamo appena cominciato: ma già vedere che antichi team manager, maestri di arrangiamento chimico e amministrativo, si sono trasformati in rigidi Torquemada della gestione autorizza un concreto ottimismo.

Se devo essere sincero, le sacche di peggiore pessimismo che sopravvivono e an­zi continuano a ingigantirsi nell’indifferenza generale, io continuo a vederle sotto. Dico sotto il movimento professionistico. Parlo dei settori giovanili, dove ancora è jungla, con un sacco di belve a piede libero. E parlo so­prattutto del settore amatoriale, che si sublima in questa febbre letale delle gran fondo. Be­nis­si­mo ha fatto il direttore Stagi, nel suo ultimo editoriale, a mettere in risalto lo scandalo della bellissima manifestazione dolomitica, capace di richiamare top-manager e reti televisive sulle strade più belle d’Italia, ma desolatamente vinta - e già dire “vinta” in una gran fondo a me fa girare l’anima - da un impresentabile. Caro direttore, siamo rimasti gli unici a notare queste cose. Pare che non interessino più a nessuno. Pare che tutti considerino anche questo genere di messinscene un grande successo di sport. Ma non facciamoci contagiare. Non la­sciamoci deprimere. Conti­nuia­mo a ripeterci, a gridare lo scandalo, costi quel che costi. Pos­siamo passare da ottusi e compulsivi, non importa. Anche per Val­verde siamo passati da ottusi e compulsivi, ma sappiamo com’è finita.
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