Non si sa chi abbia vinto l’ultimo Tour, non si sa chi correrà quest’altro che arriva. Siamo messi benissimo. Ma c’è una cosa, in questa Hiroshima del ciclismo moderno, ancora più preoccupante e insopportabile: il pesante, acre, nauseabondo aroma di giustizia ingiusta che si respira nell’aria.
Basta guardarsi in giro. Tanto per cominciare, c’è la netta sensazione di una giustizia ingiusta tra il ciclismo e gli altri sport coinvolti nella famosa Operacion Puerto. Lo sappiamo bene, non c’è bisogno che lo ripeta: per ammissione stessa del popolare ginecologo maschile Eufemiano Fuentes, nel suo studio è passata una clientela molto nutrita e molto variegata. Tanti, tantissimi ciclisti: come no. Nessuno osa negarlo. Ma anche calciatori, atleti dell’atletica, tennisti. Per tutta questa brava gente, però, il silenzio. L’oblio. La distrazione. La dimenticanza. Diamine, perché mai? È davvero pensabile che nel polverone di questi mesi sia sfuggita una tale quantità di volti noti? Com’è allora che invece dei ciclisti sappiamo veramente tutto - sigle, soprannomi, dosi, pagamenti -, com’è che non è sfuggito neanche un pelo, com’è che abbiamo messo sotto la lente d’ingrandimento, e poi trasferito per competenza alla ghigliottina, un intero movimento? Via, nel ciclismo abbiamo tanti difetti, ma non abbiamo l’anello al naso…
Poi c’è la fase due dell’odiosa giustizia ingiusta. Quella tutta interna al ciclismo stesso, capace di usare il macete con qualcuno e di girarsi misteriosamente dall’altra parte quando si parla di qualcun altro. Con Basso e Ullrich subito truculenti, con Valverde subito lievi e benevoli. E anche al Giro: Hamilton con altri subito fuori, Mazzoleni tranquillamente in gara. E tutti quanti inebetiti a scambiarci un’ingenua domanda: se dall’Operacion Puerto salta fuori un centinaio abbondante di frequentatori, perché quelli estromessi dalla comitiva si contano sulle dita di due mani? Ma a quale titolo, per quale motivo, grazie a che cosa il grosso dell’affezionata clientela Fuentes è ancora tranquillamente su piazza? Vallo a spiegare. Sono misteri. Così come è un mistero il mesto silenzio con cui si subisce la giustizia ingiusta.
E’sin troppo ovvio ed evidente: toccherebbe alle istituzioni, al governo supremo del ciclismo, prendere virilmente in mano la situazione e applicare le regole. Se l’Uci è davvero un organismo equo e democratico, dovrebbe sentirsi per prima a disagio. Dovrebbe avvertire come intollerabile che qualche figlio suo venga giustiziato, mentre altri figli suoi vagano garruli in giro per competizioni. Invece, arriva un altro Tour e ancora siamo qui a sentire cose del tipo “non tocca a noi”, “abbiamo le mani legate”, “possiamo muoverci soltanto di fronte ad atti certi”. E buona sera. L’Uci mi dà l’impressione di quel gendarme che arrivando sul luogo di un delitto, con devastazioni e sangue ovunque, alzi la voce dicendo ai presenti: “Forse qui sta per succedere qualcosa. Però non precipitiamo”. Detto molto seriamente: ma come fa un presidente a tollerare che pochissimi paghino e la grande maggioranza viva serena? Come può un’istituzione tollerare il barbaro metodo della giustizia ingiusta?
So che affrontare l’argomento da questa visuale può passare subito, presso i cervelli più faziosi e ottenebrati, come difesa di Basso. Ma non c’entra nulla. Questo non è un discorso per difendere qualcuno, ma per difendere qualcosa. Di molto più importante. L’equità della giustizia. Perché non c’è niente di più odioso della sensazione che si usino due pesi e due misure, che ci siano figli e figliastri, che si adotti il famoso metodo “forti coi deboli e deboli coi forti”. Al momento, l’Operacion Puerto lascia solo un forte senso d’amaro. Si respira chiara la sensazione che Basso possa e debba bastare. È la vecchia, insopportabile, comodissima legge del capro espiatorio.
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