Siccome tuttoBICI è una tribuna libera e aperta, dove il confronto di opinioni non è visto come una nefasta guerra tra bande, ma come un semplicissimo metodo di illuminazione reciproca, stavolta voglio scagliarmi contro un autorevole e prestigioso opinionista proprio di tuttoBICI: Giampaolo Ormezzano.
Ovviamente, prima di parlarne, mi sciacquo doverosamente la bocca, perché sto parlando di uno dei più grandi e arguti giornalisti sportivi italiani (per me, dei viventi, sta tra i primi tre, con Mura e Fossati). Se lo attacco è per quanto ha scritto nella sua rubrica del numero scorso, riferendosi a chi racconta oggigiorno il ciclismo. Riassumo brutalmente, chiedendo preventivamente perdono: sono finiti i tempi dei giornalisti capaci di farsi leggere e di solleticare l’immaginazione dei lettori. Per fortuna, aggiunge lui, ultimamente è saltato fuori questo Favetto, un tizio capitato l’anno scorso al Giro e subito dopo autore di un libro sul personalissimo viaggio rosa. Boiafaust, bastalà, era ora: da torinese a torinese, Ormezzano ha accolto Favetto come l’ultimo dei cantori, planato con il suo sguardo fresco e la sua prosa sopraffina in questo grigio pianeta di grigi cronistucoli, cioè noi, imbolsiti e accidiosi al punto ormai d’essere incapaci di vedere aldilà del nostro naso.
Caro Giampaolo, se mai leggerai questa cosa, sappi che ti trovo un po’ banale e un po’ prevedibile. Ti trovo cioè normalissimo, come tanti altri conformisti, tu che invece sei sempre stato il primo degli imprevedibili. Ti trovo malato di fiacco reducismo, là dove ricordi i gloriosi tempi andati, quando i virtuosi della penna sapevano raccontare l’epica del ciclismo, e ti trovo pure vittima di pericolosi complessi d’inferiorità nei confronti dei Favetto: costui sarà pure un genio, ma se permetti quello che hai scritto tu in tutti questi anni - del ciclismo e sul ciclismo - lui neanche può sognarselo.
So benissimo d’essere tacciabile di isteria, ma non si può sempre incassare. Io questa storia che vuole sempre più bravi quelli di quarant’anni fa o quelli arrivati da fuori comincio a non reggerla più. Quando leggo il Tour de France di Gianni Mura, sulla Repubblica, a me non manca nulla: né un glorioso scrittore di mezzo secolo fa, né tanto meno un Favetto. Sono felicissimo di Mura, che vive e scrive qui, adesso, tra noi, contemporaneo e per niente estraneo, anzi molto ben inserito nel ciclismo, tanto da potersi evitare il rischio di scrivere solenni banalità, spacciandole come acute osservazioni di un estraneo con lo sguardo vergine.
Posso anche andare avanti con gli esempi. La competenza e le informazioni del comandante di questa rivista, al secolo Pier Augusto Stagi, sono impareggiabili: ogni volta, standogli a fianco, mi stupisco della mole di indiscrezioni, di notizie, di retroscena che riesce a stivare e ad usare al momento giusto. Vado avanti? Restando tra gli amici: l’arguzia e l’ironia di Angelo Costa le ho incontrate poche volte, nelle letture dei tempi andati e in quelle dei Favetto d’oggi. E a chi ama il genere revival, sulle ali della memoria e della poesia nostalgica, un bel Porreca lenisce ogni languore. Se vogliamo poi guardare ai più giovani, trovo che i profili e le interviste di un Luigi Perna, della Gazzetta, siano godibili a prescindere, e nemmeno mi importa di paragonarli a quelli dei giornalisti d’epoca o degli scrittori che arrivano a studiare le biciclette da un altro pianeta…
Con i nomi mi fermerei qui: al contrario di Favetto, non voglio incensare l’intero albo professionale, così da garantirmi un cospicuo ritorno di esaltanti recensioni e di cordialissimi inchini. Solo una parentesi: trovo un’imbarazzante contraddizione tra quel che scrive Ormezzano, secondo il quale noi giornalisti d’oggi saremmo delle salme, e quel che scrive il suo mito Favetto, che nella sala stampa del Giro ha invece incontrato soltanto dei geni. Ma procediamo, che è meglio. Ognuno ha i suoi gusti, ognuno ha le sue firme di riferimento. Però, per piacere, non diciamo che adesso nessuno alza la testa, nessuno coltiva il gusto del dettaglio colorito, nessuno ama il racconto. Se però vogliamo dirlo, non dimentichiamo mai di aggiungere un doveroso dettaglio: nel passato come nel presente, c’è sempre stato posto per l’oscuro cronista che raccoglie notizie e poi si sfianca sul Tourmalet della prosa, accanto al talento naturale che magari ha qualche notizia in meno, ma è capace di commuovere con la sola abilità lessicale. Caro Giampaolo, non l’avrai dimenticato: anche di tanti anni fa si ricordano soprattutto i resoconti sul Giro dei Buzzati e dei Montanelli, che non erano esattamente giornalisti del ciclismo. Questo per dire come l’osservazione degli esterni abbia sempre in qualche modo completato l’osservazione degli addetti ai lavori, senza per questo arrivare a dire che gli inviati specifici erano dei minus habens. E già che ci sono, voglio aggiungere una cosa niente affatto malevola: una volta era molto più facile fare bella figura, perché si potevano raccontare balle a raffica. Un inviato dotato di media fantasia poteva dipingere il Pordoi come un terrificante girone infernale: tre quarti degli italiani il Pordoi non l’avevano mai visto, gli altri non potevano vederlo in tv perché c’era solo la radio. Prova adesso a sparare un aggettivo fuori posto, dopo tre ore di diretta Rai: il giorno dopo i lettori, che magari hanno visto più di te, chiamano per ridurti a cotoletta, impanandoti di insulti.
Caro Giampaolo, andrei avanti per mezz’ora, ma come vedi lo spazio è esaurito. Mi piacerebbe solo sapere che non sono le malinconie della pensione a impedirti di vedere il bicchiere mezzo pieno. Se così fosse, se davvero il tuo fosse semplicemente lo sfogo del reduce un po’ incarognito, la cosa deluderebbe molto. Soprattutto me, che ti ho sempre considerato un impareggiabile ragazzo.
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