Mi si è bucato il cuore
di Gian Paolo Porreca
Amici cari, finisce qui, non c’è più niente da fare... Quasi quasi con un sorriso di circostanza aggiungeremmo “sic transit gloria mundi”, se non risultasse spropositato alla quaestio. E il dubbio che il nostro vivere biciclettando diventato un desvivere non interessi nessuno, e nessun lettore, ci turba molto relativamente, all’esordio di settembre 2025.
Amici cari, succede questo, questo che non succedeva da quando nel 1975, o forse era il 1980, siamo di gennaio 1950, avevamo inteso come training autogeno incommensurabile la bicicletta da corsa ad Ischia - Ischia benedetta, Ischia terricola, Ischia modestamente -, Ischia a portata di uomo e bracconieri non a miglia di panfilo e rave on the sand. E ne avevamo tracciato come prova da sforzo - di estate in estate, della vacanza familiare abituale, perché solo di agosto la praticavamo - quel suo emblematico percorso dal mare alla collina: 1800 metri di bella strada, per un dislivello di 150 metri minimo, che dalla spiaggia dei Maronti porta al pianoro di Testaccio, e lì un respiro di sosta, nel comune di Barano, area virtuosa della Ischia famelica.
Amici cari, accade questo, che dei 4 o 5 tornanti di quella balconata incisa sul promontorio di Testaccio e spalancata sul mare noi conoscessimo a menadito curve e tombini, lavori di stradini e rifacimenti di giardini, insegne stradali, l’ultima sulla spianata prima del “Paradise”, locale dismesso, per potersi eventualmente rallentare la tachicardia. E contemplare, la mano destra avvinta al palo con il segnale della curva a sinistra.
Amici cari, e preziosi, accadeva questo, che il nostro trionfo, il nostro segno di avere scapolato/valicato come un Ventoux indenni un anno integro ancora, era quello di arrivare al vertice della salita, al limite con una sosta frapposta per eccesso di cautela fisica. E poi la distensione del rapporto lungo ingranato sull’altopiano del paesino di Piedimonte, e semmai un thè freddo al bar, what a beautiful day, dopo la chiesetta di Vatoliere sempre aperta, a destra.
Amici cari e preziosi, del ciclismo e delle sue storie, e delle sue pazienze e delle sue impazienze, accade allora questo accadimento, dentro chi scrive qui e pedala non frequentemente certo, ma pedala da sempre. Dal 1955.
Accade di tornare come ogni estate e ogni giorno di agosto dal 1975, o forse era il 1980, indietro verso l’albergo giù ai Maronti, “Hotel Parco Smeraldo”, non più dunque in salita, ma con la barra verso la discesa, e con la stessa pendenza stavolta a favore, clamoroso. E improvviso ecco il buio che si accende dentro.
Amici cari e preziosi, si spalanca in noi improvvisa ed agghiacciante - inaudita - la paura della discesa non ripida, pure conosciuta a memoria, quei drittoni che si succedono speculari bene o male ai tornanti della ascesa precedente. E che ci sembrano abissali. Inferi.
Amici cari e preziosi, senza essere Federico Martin Bahamontes ad un Tour del ’59, ho sentito come un imperativo categorico l’obbligo di fermarmi in discesa, sulla destra, l’appoggio al muro di strada, “Onda verde”, il ristorante di Vuoso, sgancio pedali, un varco familiare.
Amici cari e preziosi, il terrore della discesa mai conosciuto in vita, era nato in me. Un agguato.
La bicicletta da corsa, la “Boschetti” del ’92, curata di inverno dal buon Enzo Scotto, l’avrei portata a piedi, io e lei sulle spalle, sin sulla spiaggia.
Chi l’avrebbe detto, non io, che un amore di storia in bici sarebbe finita di settembre 2025 per l’irrazionalità del panico. “Non c'è più niente da fare/ma è stato bello sognare”.
«Avete bucato la ruota dottore ?», mi conoscono tutti ad Ischia. «No, grazie, ma mi si è purtroppo bucato il cuore».