Posso dirlo adesso che il personaggio è distaccato dalla quotidianità dello sport: Giampiero Boniperti è un finto innamorato del calcio, il suo sport vero sarebbe stato il ciclismo, lì sarebbe stato buon corridore ma soprattutto enorme dirigente, trafficone il giusto, inventore di corse, magnificatore di atleti. Avevo avuto il sospetto quella volta che lo feci venire al Giro d’Italia per seguire una tappa, e scese dall’auto di Vincenzo Torriani stravolto di sensazioni emozioni commozioni. Ma di recente mi è accaduto di seguire con lui - mio amico fraterno nonostante il baratro calcistico che ci divide: io sono tutto per il Torino, lui è la Juventus - un arrivo di tappa al Tour, nel suo ufficio torinese dove passa sempre meno giorni, impegnato com’è a Strasburgo e a Bruxelles dal Parlamento Europeo di cui è deputato (e siccome lui è serio, sin troppo, prende l’incarico sin troppo sul serio, guai se mi permetto di dirgli che non penso che i veri destini d’Europa si giochino in quelle sedi).
Boniperti, che ormai ha sessantasette anni e dunque non fa più in tempo, purtroppo, a costruirsi una vita ciclistica, di ciclismo sa molto, ma soprattutto applica ad esso quel suo senso selvaggio (selvatico, direbbe lui, che ogni tanto gioca a tornare ad essere il contadino della sua Barengo, nel Novarese) di comprensione di cose e uomini e opere e fatti che fa, ad esempio, il grande critico d’arte, il grande esperto di musica. E di sport. Boniperti, che pure avendo frequentato in tanti modi tanti gesti calcistici potrebbe essere monocorde, condizionato, fossilizzato in una situazione e solo in quella, escludente poi le altre, sa capire il gesto del ciclista, il momento della corsa, il perché di un fare o di un non fare da parte di colui che pedala. E con il rispetto massimo della fatica, quel rispetto che non sempre ho visto vivere in lui per il calciatore. Quella volta della recente comune visione televisiva chiamammo al telefono Giacomo Santini, suo compagno di parlamento europeo e radiocronista che non vuole proprio essere ex, ma non gli dissi di questa mia constatazione, quasi per gelosia della scoperta.
Perché in fondo posso pensare che non sia tanto Boniperti a capire il ciclismo, quanto il ciclismo a farsi capire da Boniperti. E cioé che l’Universale sia il ciclismo, non lui. Perché se dopo cinquant’anni di vita interamente votata al calcio, alla Juventus, alle cose e cosacce del pallone, un Boniperti riesce a vivere così bene il ciclismo con il semplice messaggio visivo-elettronico di una tappa, si deve pensare che davvero il nostro sport possiede, oltre ad una koinè, una lingua comune, una essenza, un assoluto naturale (in ogni caso, non si pensi a cosa ha perduto il ciclismo a non avere Boniperti, ma un Boniperti a non avere il ciclismo).
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Voglio lanciare, rilanciare qui un’idea che misi avanti ad un dibattito, non pochi anni fa, su ciclismo e motorizzazione. Il ciclismo ha bisogno di una vittima, di un martire illustre. Parlo cinicamente ma lucidamente, anche come direttore de “La Buona Sera”, il periodico di vita, morte e miracoli che ho creato e lanciato con l’entusiasmo e i soldi di Alcide Cerato, pompe funebri San Siro, ma per me soprattutto ex ciclista ed amico (riparlerò della pubblicazione, qui). Parlo da innamorato del ciclismo, come quella volta che a Firenze ricordai che il poco che il parlamento, il governo, lo stato stavano facendo per noi era dovuto ad una caduta in bicicletta, con naso rotto, di un politico che contava, Oddo Biasini allora segretario del partito repubblicano, romagnolo amico anzi amante delle due ruote.
E dissi che un morto celebre sarebbe stato importantissimo per la Causa: quasi auspicando un sacrificio. Lo ridico adesso. Si pensi ad un uomo celebre travolto da un’auto mentre fa del sano ciclismo: la bicicletta guadagnerebbe subito spazi nuovi, grandi. E il personaggio si farebbe altri meriti, straordinari.
A pensarci bene, meglio se fosse ferito seriamente, ancorché non terribilmente. Potrebbe parlare, farsi interprete di, farsi animatore del, farsi leader della. C’è qualche politico che voglia assumere la parte, difficile ma stimolante, del protomartire?
A pensarci meglio: quella volta a Firenze auspicai una morte, e fui troppo crudo. Ma forse avevo l’idea di una classe politica che davvero poteva al massimo servire da buona carne per l’affermazione della bicicletta. Adesso non è che la classe politica sia migliorata, però sono migliorato io. O almeno sono invecchiato, e si sa che i vecchi si fanno duri di carne e teneri di cuore.
Gian Paolo Ormezzano,
60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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