Perché non corriamo il Giro d'Italia a Ferragosto?
Mi è accaduto di avere come ospiti, in una mia rubrica radiofonica (Radio 3 al venerdì mattina, forse per pochi intimi, ma con uno zoccoletto duro di ascoltatori interessati e interessanti), due personaggi di rilievo dell’ambiente ciclistico, e cioé Alfredo Martini, commissario tecnico azzurro, e Philippe Brunel, giornalista francese di Equipe Magazine, tredici Tour de France e otto Giri d’Italia nel suo carniere di scrivano. Il tema era la (presunta?) superiorità tecnica, organizzativa e soprattutto culturale del Tour sul Giro, lo svolgimento è stato tutto diverso da quello che mi attendevo e che in un certo senso avevo promesso in inizio di conversazione.
Martini e Brunel, e più Brunel che Martini, hanno detto che la superiorità del Tour è dovuta essenzialmente a due ragioni: il fatto che la corsa francese si disputa nel luglio del grande caldo, il fatto che si disputa nel periodo delle grandi vacanze, almeno da quelle parti. Le conseguenze sarebbero quelle di una superiore drammaticità e di un facile consenso. Poi la discussione si è allargata, sino - finalmente, enfin - alla maggiore partecipazione culturale, letteraria al Tour: ma tutto dipendente sempre alla calamita della drammaticità e della popolarità fra vacanzieri.
Così l’idea di un Giro d’Italia in agosto, nell’Italia del grande caldo e delle vacanze, diventa un’idea concorrenziale nei riguardi del Tour de France. Da pensarci su, in tempi poi di stravolgimenti del calendario ciclistico. Anche se una conclusione a Ferragosto, in quel di Milano o di Roma, e nel centro delle città, ci sembra meno promettente di una conclusione del Tour a fine luglio sui Campi Elisi di Parigi. Così come un passaggio del Giro a Rimini nel pieno delle ferie ci pare assai più problematico di un passaggio del Tour nelle località marine della Provenza.
È una bella discussione, dove magari lo sciovinismo dei francesi e la nostra esterofilia si incontrano, si scontrano. È anche una discussione senza sbocchi, perché l’idea del Giro d’Italia ad agosto sembra comunque impraticabile, nonostante i tanti pro e i pochi contro. E non impraticabile per ragioni ciclistiche, ma per ragioni ferragostane, di sacralità delle vacanze. Ecco, in Francia un’idea di vacanza porta ad un’idea di ammirazione affettuosa per chi fatica, in Italia un’idea di vacanza porta ad un’idea di commiserazione ironica per chi fatica. E questa se si vuole è - finalmente, enfin - una differenza culturale.
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Rimaniamo nell’estate del ciclista. Gli è estranea e spesso nemica, dal punto di vista delle vacanze, così come l’inverno per lo sciatore. Conservo davvero con amore la storia di Franco Bitossi, «cuore matto» degli anni sessanta, che la volta in cui per un accidente non fece nè Giro nè Tour si concesse, lui toscano, un po’ di mare nella Versilia e fu subito notato perché aveva le braccia abbronzate fino al gomito, poi sino alla spalla erano bianche: come accade ai ciclisti, basta un poco di sole. E lui, richiesto di quale mestiere facesse, preferì dire muratore che pedalatore, e spiegò quell’abbronzatura con lo stare ore e ore in cantiere con una camicia con le maniche rimboccate. Gli sembrava che dirsi ciclista, e vacanziero mentre i suoi colleghi faticavano, fosse una cosa disdicevole.
I ciclisti d’estate faticano, come gli sciatori d’inverno. Per gli sciatori, e specialmente per la vasta categoria dei maestri, ci sono offerte estive speciali, alberghi convenzionati, soggiorni studiati: proposte e prezzi sono sulle loro riviste specializzate. Per i ciclisti l’inverno è per gli happy few, i pochi eletti, a ingaggio, o almeno a spese pagate, nei posti del sole, oppure è il greve andare per banchetti e casomai per ciclocross. Dunque non c’è compensazione, per la maggioranza di loro, alla perdita dell’estate, all’amputazione, sul piano ludico, di una intera stagione, la più amata dagli altri, dalla massa.
Una ingiustizia, se si vuole, specie in tempi di sacralità delle vacanze: e in Italia sacralità collettiva, di massa, capronesca ma imprescindibile, tutti insieme nello stesso posto negli stessi giorni.
Gian Paolo Ormezzano,
60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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