C’è un collega che si occupa di ciclismo, che è bravo e caro, e che dice «turdefrans» con la stessa pienezza non solo di ogni parola, di ogni sillaba, di ogni suono, con cui Giampiero Galeazzi dice «coppadevis». Con la stessa riconoscenza calda per la manifestazione, anzi l’evento. Indovinate il nome, o esercitate la memoria fonica, il collega è molto noto e parla spesso in pubblico. Gli devo - davvero - l’offerta periodica e costante del Tour de France in chiave di fonema ma anche di ammirazione, adorazione, soggezione, spettacolarizzazione, meditazione e tanti one, one, one... Tutto con appena tre sillabe. E neanche la nasalità del dire, notevolissima in quel «france», disturba, anche se è chiaramente affettata, non naturalmente adenoidea.
Adesso è di nuovo tempo di Tour e ritorna la gran devozione per la corsa. Devozione aprioristica, con il Giro d’Italia siamo molto più attenti, gli concediamo noi stessi solo verso la fine, se proprio è andato bene, mentre al Tour de France ci diamo tutti in tutto e subito, se qualcosa non funziona siamo noi a sbagliare, mica il Tour de France. Il perché non esiste, come è classico di tutti i grandi perché. Oppure il perché è perché sì, parce que oui (attenzione a non dire pourquoi oui, erroraccio, già ne fanno troppi i nostri corridori al Tour, provinciali nel voler parlare francese, teneri nello sbagliarlo).
Il Tour de France è una delle ultime italiche soggezioni verso la Francia. Una volta invidiavamo alla nazione, che poi è Parigi con alcuni dintorni e contorni, i profumi, i formaggi, i vini, i nudi di donna, le canzoni. Tutto finito, o meglio tutto agguantato dalla nostra splendida, forte autarchia italiota, che ad esempio ci ha fatto saltare dal topless al porno quasi saltando il passaggio del nudo integrale. Resta il Tour de France, inagguantabile, impomiciabile. Se un giornalista italiano dice alla sua donna, che non sa niente di ciclismo, «vado al Giro», si sente dare del vagabondo, se dice «vado al Tour» passa immediatamente nella parte del grande pellegrino o dell’intrepido crociato. Roba ideale per una canzone del grandissimo Paolo Conte, con la voglia tanta e i soldi pochi di quando scriveva Bartali (ne parlai con Gino poche ore dopo averla sentita da Bruno Lauzi, gli dissi che era una meraviglia, lui mi chiese di questo Conte, mi fece: «Oh cosa potrai mai avere fatto di bello su di me un piemontesaccio come te»).
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È finito il Giro fra gli echi delle slavine sul Monte Agnello, e si è scomodato per i corsi e ricorsi storici e ciclofachiristi il Monte Bondone che rivoltò il Giro del 1956, riempiendolo di neve, di freddo, di crolli in classifica. Bene, quel giorno io ero in redazione a Tuttosport, e la radio e il telefono degli inviati ci portarono le notizie, suffragate da quel poco di televisione incipiente che c’era. Fu un gran lavorare, fra timori grossi, sollievi grossissimi, comunicazioni difficili, e con l’idea dell’evento da cavalcare eccome, sennò saremmo stati rei di leso giornalismo. Così si decise di dare mezza pagina alla fotografia del volto del vincitore all’arrivo, il lussemburghese Charly Gaul, un volto irriconoscibile, distrutto, disfatto, martoriato dal freddo e dalla paura. Erano i tempi di una grafica ancora discreta, una foto su tre colonne, alta un palmo era già grandissima, quella volta il Grande Superstite della giornata di tregenda ebbe mezza vetrina del giornale per lui, per il suo glorioso sfacelo fisico. Irriconoscibile, appunto. Non era Charly Gaul, era lo svizzero Graf, da lui diversissimo: lo appurammo qualche tempo dopo, nessun lettore se ne accorse, lo stesso Gaul non ci segnalò nulla, eppure lui, come Graf, era in pratica di residenza italiana. Amen.
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Anche la storia recente parla di un clamoroso errore commesso da un esperto giornalista sulla prima pagina di un grande giornale. Un articolo-intervista con Bartali a proposito del film su Coppi, quello sempre annunciato mai proiettato (è finito, comunque; e si vedrà, lo vedremo), e una sommaria ricostruzione della vicenda umana del Campionissimo. Con un vistoso errore: l’attribuzione come madre a Faustino - figlio di Fausto e di Giulia - della legittima signora Coppi, Bruna.
Chi ha commesso quell’errore, sfuggito anche a redattori e correttori, ha aspettato giorni e giorni il giusto rimprovero della direzione, il pissi-pissi bao-bao del collega amico, la denuncia di un lettore, di cento mille lettori sorpresi, indignati. Niente di niente. Tanto che ora l’errore può essere divulgato, scritto anzi sottoscritto; qui, dall’autore.
Gian Paolo Ormezzano,
60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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