Devo per prima cosa spiegare il titolo di questa rubrica. Nasce da memorie di poesiole che, da Giri d’Italia e Francia, scrivevo su Tuttosport, dedicandole alle mie figlie, Olivia e Maria (“beccatevi questa poesia”: poi arrivò Timothy, rima impossibile, stop). Una di queste poesiole, che bene o male erano tutte quante di soggetto sportivo, riferiva del ciclismo, quel posto del mondo dove “un rapporto non è una relazione, - una moltiplica non è una moltiplicazione” (c’era persino la rima).
L’idea di associare rapporti e relazioni mi pare, giornalciclisticamente, insieme valida e facile. I rapporti per ricordare, dal mio ciclismo che fu, la parte agonistica sincopata sempre dalla scelta del tramite meccanico e matematico tra la fatica e la strada percorsa. Le relazioni per ricordare tutto quanto il ciclismo propizia; e non è neppure esatto dire che lo propizia più di ogni altro sport, perché la maggioranza degli altri sport è addirittura il conclamato contrario della produzione di umanità. Anche in altri sport esiste l’abitudine al rapporto cioè alla quantificazione in numero dello sforzo. Nemico dei primati, per la non misurabilità precisa dei suoi tracciati, il ciclismo si diverte spesso a estrapolare da una semplice moltiplicazione (che poi non è tale, il ciclismo è soprattutto moltiplica, una cosa diversa) tutto quello che è bene sapere sulla fatica di un individuo. Il primato dell’ora con il tale rapporto, la scalata importante con il tal altro, la volata decisiva con il tal altro ancora.
Ma il rapporto nel ciclismo è altra cosa che il tempo finale nell’atletica, il tempo di passaggio nel nuoto, la progressione dei pesi nel sollevamento. Il rapporto nel ciclismo è liofilizzazione numerica di fatiche, sudori, tattica, lucidità, accortezza, bluff, mineraria estrazione del rendimento massimo. Il rapporto è il contrario della relazione: è una faccenda personale, privata, è la codificazione della fatica a contatto del mezzo meccanico, ma subito, per chi se ne intende, diventa una decodificazione.
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Recentemente ho scritto un libro che si vende persino bene, un libro ovviamente sullo sport, “Poveri campioni”. Chi lo ha letto conoscendomi un poco mi ha detto che è troppo ciclistico, troppo partigiano per il ciclismo. Vero, e sono molto contento che la distonia fra il ciclismo e il resto del mio sport si capisca così bene.
Io ho preso ad amare il ciclismo quando già avevo dentro tantissimo sport, anche professionale. Non sono mai stato pedalatore agonista: nuotatore, podista, calciatore sì. Diciamo pure che quello mio per il ciclismo è stato un amore costruito: dei più forti e sicuri, insomma. L’amore per il ciclismo è divenuto, in me, naturale in un secondo tempo. Nel libro credo davvero di aver dato al ciclismo l’opportunità dell’ultima pedalata in ogni strada della mia vita, anche in ogni sentiero. E il libro non è assolutamente il pagamento di un debito: sincopando il libro di ciclismo, non faccio altro che aumentare il debito che ho.
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Voglio qui ricordare un grandissimo ciclista sconosciuto. Fu il mio allenatore di nuoto, si chiamava Angelo Bianchi, è morto da pochi anni, mentre andava verso i cento. Nella vita aveva fatto molte cose, anche l’aviatore, e un incidente aereo gli aveva spezzato le gambe, che erano diventate entrambe più corte, per chissà quale diavoleria ai femori ed al bacino.
Un giorno ci narrò del suo ciclismo agonistico: e sono certo che disse il vero. Dunque lui era della categoria indipendenti, e decise di fare la Milano-Sanremo. Il giorno della vigilia andò in bici da Torino a Milano, per la punzonatura, poi con una lampada a fargli vedere un po’ di strada andò alla pensione e cercò di dormire duro. Il giorno dopo ci fu la corsa, quasi una gita al mare, la parte dolce dell’impresa. Angelo Bianchi si era pagato il lusso di una pensione anche a Sanremo, per riposare bene. Ma aveva pochi soldi e gli toccò soltanto una stanzaccia con una sofà-letto: nel pieno della notte le molle divennero insopportabili, gli scavavano la schiena, si alzò, aveva già pagato il pernottamento, nel buio andò a prendere la bicicletta in cortile, salì in sella e pedalò fino a Torino.
Molti anni dopo la sua narrazione, lessi un racconto di Giovanni Mosca, diceva di un postino di paese incaricato di recapitare un telegramma al Grande Campione che lui adorava e che quel giorno al paese era approdato con il Giro d’Italia. Il postino andò trepido, sulla sua vecchia bicicletta, alla località di partenza, per recapitare il telegramma, ma la corsa era già partita. Inseguì, arrivò sul gruppone, il Grande Campione era già andato in fuga. Il postino lo inseguì, lo raggiunse, lo affiancò, gli consegnò il telegramma, con qualche acrobazia ottenne anche la firma di ricevuta e un autografo, poi strafelice accelerò, staccò il Grande Cam-pione, aveva da consegnare tanta posta in tanti paesi di quella zona di montagna e si riprometteva di fare in fretta per essere, al pomeriggio, puntuale sul traguardo, dove il Grande Campione sarebbe arrivato dopo aver disputato, in giro per quei monti, una tappa favolosa.
Gian Paolo Ormezzano,
69 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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